23 maggio 2007

Questioni spinose

Aiutare i poveri o imitarli? Dilemma vecchio 2000 anni
Monsignor Bagnasco parla di "pacchi viveri"per i bisognosi La storia
di un comando evangelico e di una tentazione ideologica
di Marco Burini

Tratto da Il Foglio del 23 maggio 2007

"I poveri li avete sempre con voi", dice a un certo punto Gesù di
Nazaret nel vangelo di Giovanni. E subito il lettore si sente come un
cammello/gomena incastrato nella cruna di un ago.

Il pensiero non trova un varco, perché su questo punto la predicazione
cristiana è palesemente contraddittoria: il povero è il destinatario
del messaggio di salvezza ("Beati i poveri"), ma tale messaggio chiede
che il destinatario sia strappato dalla condizione di povertà ("Avevo
fame e mi avete dato da mangiare"). Affrettarsi a distinguere tra
povertà materiale e povertà spirituale è un modo per rifugiarsi dietro
le parole. Dunque: soccorrere i poveri o farsi poveri, sfamarli o
imitarli? Povertà benedetta o maledetta, compito o destino? Predicare
rassegnazione o liberazione, carità o giustizia? Amministrare le
risorse e distribuirle oppure vendere tutto e condividere la
precarietà? "I poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me" è
un monito che si comprende alla luce del capitolo venticinquesimo del
vangelo di Matteo, laddove le opere di misericordia verso gli ultimi
diventano il lasciapassare per l'eternità. Gesù, insomma, identifica la
propria sorte con quella dei poveri. E allo zelante Giuda, ansioso di
dare una risposta politica allo scandalo di un popolo ridotto in
miseria dalla dominazione romana ("Perché quest'olio profumato non si è
venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?", mugugna davanti
a Maria che sperpera l'unguento sui piedi del maestro) fa notare che ci
sarà tempo -tutto il tempo -dopo la sua morte, per dedicarsi a loro.

La terra è di Dio
Israele l'aveva capito fin dall'inizio. Si legge nel Deuteronomio: "I
bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando
e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e
bisognoso nel tuo paese". Le numerose disposizioni giuridiche elaborate
nel corso del tempo (l'anno di remissione dei debiti, il divieto di
prestare denaro a interesse e di trattenere un pegno, l'obbligo della
decima, l'obbligo di pagare puntualmente il salario ai lavoratori
giornalieri, il diritto dei poveri di racimolare e spigolare nei campi
dopo il raccolto) andavano in questa direzione. Ma al tempo dell'esilio
la teologia della retribuzione (il giusto premiato e il peccatore
punito) andò in frantumi, a tal punto che nei salmi Dio è accusato di
non vedere le ingiustizie. In seguito, i profeti rimproverarono
aspramente i loro connazionali per aver indurito il loro cuore,
dimenticando che la terra appartiene a Dio e nessuno può accaparrarsela
a danno dei fratelli, specie i più deboli (l'orfano e la vedova).
Celebri le invettive di Amos che nelle frodi e nei soprusi dei ricchi
vedeva la rottura del patto di alleanza su cui si fondava la comunità.
La vicenda di Gesù, formatosi nell'ambiente degli "anawim"(gruppo di
ebrei che attendevano il messia vivendo in povertà e rileggendo i
profeti e i salmi), rabbino itinerante e squattrinato accudito da un
gruppo di donne abbienti, si inscrive in questa storia. Non è un caso
che le sue prime e ultime parole in pubblico riguardino i poveri e una
costante della sua predicazione sia il ribaltamento del luogo comune
che vede nella ricchezza una benedizione ("Guai a voi ricchi!"). Le sue
parole scandalizzano, ma anche i suoi comportamenti danno adito a
pettegolezzi. Si vanta di "non avere nemmeno una pietra su cui posare
il capo", però non disdegna lauti banchetti con personaggi equivoci
("E'un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori") e fa
il mantenuto fino alla fine, tanto che a seppellirlo saranno due suoi
amici benestanti, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea. Ciò che disorienta, a
ben guardare, è la sua assoluta libertà dal possesso. Come ben dirà
Jacopone da Todi: "Povertate è null'avere/ e nulla cosa poi volere/ e
onne cosa possedere/ en spirito de libertate".

Comunione, non comunismo
La comunità cristiana riparte esattamente da qui. Anche se il
citatissimo brano degli Atti degli apostoli che descrive la vita della
prima comunità ("Tutti coloro che erano diventati credenti stavano
insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze
le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno")
non è la testimonianza di un "comunismo cristiano"ma di una precisa
teologia: la comunione (koinonia) non è dei beni, ma dei cuori. Infatti
"non risulta che i cristiani avessero come prassi ordinaria la vendita
delle proprietà personali; in realtà usavano di esse per il migliore
vantaggio della comunità, intesa come una famiglia unica" (Vincenzo
Paglia). Una famiglia in cui non mancavano le beghe. Come quella che
scoppiò per la distribuzione quotidiana di generi di prima necessità;
le vedove di origine greca protestarono perché si sentivano trascurate
rispetto a quelle ebree, allora gli apostoli organizzarono l'assistenza
istituendo un servizio assegnato a uomini fidati (diaconi, più tardi
anche diaconesse). Episodio degno di nota, dato che fu il pretesto per
il primo concilio della storia, che quindi si riunì non per dibattere
questioni dottrinali o morali ma, appunto, caritative. Al culmine delle
inziative di beneficenza c'era la colletta, già promossa con grande
impegno da Paolo per la chiesa di Gerusalemme. "Queste iniziative
permettevano una circolazione interna di denaro dai ricchi ai più
poveri che consentiva di riequilibrare la distribuzione dei beni
compromessa da un ordinamento sociale profondamente ingiusto come
quello della società greco-romana. Non cambiamento del sistema quindi,
ma significativa correzione di esso" (Goffredo Zanchi).

Radicali carismatici e realisti pastorali
Un cristiano può possedere beni? La domanda sorge spontanea nei primi
credenti che si confrontano con le scritture (specie la chiamata
evangelica del "giovane ricco", oggetto di molte esegesi) e non
abbandona più la storia del cristianesimo. Si delineano due
atteggiamenti opposti: un radicale distacco dal mondo con il
conseguente rifiuto dei beni da una parte e una teologia del possesso
che giustifichi la compresenza di poveri e ricchi nella comunità
dall'altra. La prima tendenza si sviluppa soprattutto nelle comunità
orientali e risponde all'ansia per un regno dei cieli considerato
imminente. Ebioniti, encratiti e apostolici sono i nomi dei circoli
radicaleggianti in cui i beni sono visti con disprezzo. Da essi parte
una deriva gnostica che considera tempo perso l'elaborazione di una
dottrina sociale della chiesa. Ma tra gli intransigenti bisogna
annoverare anche autori di grande spessore come Origene, che chiedeva a
tutti l'ascetismo, e Pelagio, secondo il quale i ricchi non hanno
cittadinanza nella chiesa. La seconda tendenza mira a elaborare
indicazioni pastorali realistiche, che tengano conto della presenza
nella comunità sia di poveri sia di abbienti, in grande crescita dopo
la svolta costantiniana. "La Didaché, lo Pseudo Barnaba, il Pastore
d'Erma e Clemente di Roma trasformano la scelta della povertà radicale
per accogliere il Regno in quella del dovere dell'elemosina al povero
per meritarvi l'ingresso"(Paglia). In tale direzione lo sforzo teorico
maggiore lo fece Clemente d'Alessandria che scrisse "Quale ricco può
salvarsi?", il primo testo patristico che affronta sistematicamente il
rapporto tra annuncio evangelico e possesso dei beni. Partendo
dall'idea che "Gesù Cristo non proibì di essere ricco in modo onesto,
ma di essere ricco in modo ingiusto e insaziabile", Clemente introdusse
una distinzione che diventerà tradizionale tra beni utili (ktèmata),
che si possono tenere, e risorse (chrèmata) preparate da Dio per gli
uomini, che vanno ripartite tra tutti. A sua volta, Agostino confutò
l'idea di Pelagio, che voleva una chiesa di pochi eletti, sottolineando
il primato della carità sulla rinuncia e ricordando che il ricco non
deve dare tutto ai poveri e può continuare a possedere i propri beni,
anche quelli superflui, purché eviti la superbia che essi possono
indurre. La linea tracciata da Agostino -che come tanti altri teologi
dell'epoca è anzitutto un vescovo, dunque un amministratore di beni a
cui è richiesta competenza in materia -sarà il leitmotiv della carità
in epoca medioevale: il superfluo del ricco è il necessario del povero.
Anche per Giovanni Crisostomo "la ricchezza, se accompagnata dalle
opere, è onesta. Quali opere? Sollevare la povertà, sostenere l'inopia…
Da una parte si dà il ricco che ruba i beni di tutti, dall'altro il
ricco che distribuisce il proprio ai poveri… Carattere delle ricchezze
è di disperdersi se si conservano, di conservarsi se si disperdono".
D'altra parte, molti Padri della chiesa ritenevano che all'inizio non
ci fosse proprietà privata, ma tutto era in comune.

Carità contro beneficenza
Si può notare come le due tendenze appena descritte in realtà non si
sono succedute l'una all'altra in senso cronologico, come se al sacro
fuoco dei primi seguaci nullatenenti ed entusiasti per l'approssimarsi
dell'"eschaton"fosse subentrata la riflessione a freddo di chi meditava
come conciliare una pratica cristiana aperta a tutti con una fine dei
tempi che tardava a venire. Piuttosto, si tratta di due anime che hanno
sempre convissuto e continuano a convivere nel corpo ecclesiale
confermando come il nodo della povertà, giocato nella dialettica
carisma/istituzione, sia formalmente inestricabile. Il nodo può essere
sciolto solo nell'esercizio della carità che per la chiesa non è un
optional ma una necessità che va ben oltre il recinto della
beneficenza, ormai ridotta a parola d'ordine dell'ideologicamente
corretto. Per il credente, i poveri sono un pegno inatteso, anche
fastidioso, una consegna non richiesta e ingombrante che sollecita una
cura disinteressata. La beneficenza, invece, è un simulacro che la
società dello spettacolo ha edificato a sua immagine e somiglianza: la
tua destra sappia a menadito ciò che fa la sinistra, e soprattutto lo
sappia il pubblico per un bell'applauso. La carità è un'altra cosa,
rivendica un'autonomia che vuole riscattare la povertà dai palinsesti
(impresa a dir poco ardua, data la pervasività della comunicazione) e
da dibattiti sociologici di prima e seconda mano. Dibattiti che nel
secolo scorso non hanno risparmiato la chiesa stessa, ma che oggi sanno
un po'di muffa.
(1. segue)



Ringrazio A.N. per questo contributo

2 commenti:

Penelope ha detto...

"La comunità cristiana riparte esattamente da qui.
Anche se il
citatissimo brano degli Atti degli apostoli che descrive la vita della
prima comunità ("Tutti coloro che erano diventati credenti stavano
insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze
le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno")
non è la testimonianza di un "comunismo cristiano"ma di una precisa
teologia: la comunione (koinonia) non è dei beni, ma dei cuori.

Mi sa che abbiamo qualcosa "in comune".

"Con lo stesso amore,
con lo stesso spirito,
con gli stessi sentimenti.
Niente per rivalità, nè per vanagloria, ma tutto con umiltà..."

Matteo Mazzoni ha detto...

@penelope: è vero, non si tratta di politica, ma di amore fraterno... Qualcosa in comune?

"...Guardando i desideri degli altri,
stimando gli altri superiori a se..."

Una cosa che spesso è tremendamente difficile...