“Se mi ritengo realizzato e, in questo senso, felice? Rispondere a questa domanda non è semplice… In generale non conosco riformatori felici”.
“Chi aveva ragione, chi si sbagliava – questo lo dimostrerà la storia”.
Michail Gorbačëv, 1993/2000 Parlando in una lingua usuale per la politica, Gorbačëv ha subito una sconfitta: la “riforma democratica” che cercò di condurre in Unione Sovietica è finita con il crollo del paese e dello stato. Ma questo non è tutto quello che si può dire di sei anni e mezzo della sua leadership, che sono stati notati per due successi senza precedenti di Gorbačëv. Questi ha avvicinato la Russia (allora ancora Russia sovietica) alla democrazia reale più che in qualsiasi altro momento della sua storia plurisecolare. E insieme ai partner che trovò nelle persone dei presidenti americani Ronald Reagan e George Bush primo andò più vicino di chiunque prima di lui alla fine della pluriennale guerra fredda. E' insensato, tra l'altro, supporre che Gorbačëv dovesse obbligatoriamente portare a compimento i propri principi. Pochi riformatori, perfino gli “uomini storici di successo”, sono capaci di vedere la propria missione in pieno, prima e dopo. Questo riguarda in particolare gli iniziatori di grandi mutamenti, il carattere e la durata dei quali generano più ostacoli e problemi di quanto i loro autori (a meno che non si parli di Stalin) possano o riescano a superare. Il “New Deal” di Franklin Roosevelt, questa perestrojka del capitalismo americano, è continuato, con digressioni, ancora per molti anni dopo la morte dell'autore. La maggior parte di questi leader apre soltanto le porte politiche, lascia dopo di se vie alternative non esistenti in precedenza e spera come Gorbačëv, che lo ha dichiarato più di una volta, che ciò che ha cominciato sarà “irreversibile”. Le chance storiche di modernizzare gradualmente la Russia e di porre fine alla guerra fredda sulla base del consenso generale costituiscono l'eredità di Gorbačëv. Ciò che è risultato perduto o mercanteggiato è stato colpa delle elite e dei leader venuti dopo di lui, tanto a Mosca, quanto a Washington. Di conseguenza queste chance hanno avuto presto una presentazione non veritiera e sono semi-dimenticate. Nonostante gli slanci democratici che hanno avuto luogo sotto Gorbačëv, il ruolo di “padre della democrazia russa” presto è stato dato al suo erede Boris El'cin. I principali giornalisti americani, così come i rappresentanti dell'establishment politico di Washington, adesso dichiarano ai propri lettori che proprio El'cin ha iniziato il “passaggio della Russia dal totalitarismo”, che “ha posto la Russia sulla via della democrazia” e che sotto di lui ci sono stati i “primi bagliori della cittadinanza democratica”. “La democrazia ha avuto origine in Russia dopo il crollo del comunismo sovietico nel 1991”. Insomma, il modello gorbacioviano di democratizzazione evolutiva è stato cancellato dalla storia e, conseguentemente, dalla politica. Come si può spiegare una simile amnesia storica? Nella Russia post-sovietica la causa principale era l'indirizzo politico. Temendo l'inquietudine popolare a causa del loro ruolo nel crollo dell'Unione Sovietica e l'incrollabile popolarità di Gorbačëv all'estero, El'cin e il suo entourage più vicino dichiararono che proprio il nuovo presidente russo, indubbiamente, era il “padre della democrazia russa” e Gorbačëv solo un riformatore incerto che sperava di “salvare il comunismo”. Inizialmente perfino alcuni sostenitori russi di El'cin capirono che ciò non corrispondeva alla realtà ed era pericoloso per il futuro del paese. Un uomo di stato che, valutando il ruolo di Gorbačëv, lo chiamò “liberatore”, scrisse: “Non ci sono miracoli: persone incapaci di valutare un grand'uomo non possono guidare un paese con successo”. 1) Ad Occidente e in particolare negli Stati Uniti il riesame della storia fu determinato dall'ideologia. Le storiche riforme di Gorbačëv, come pure le precedenti speranze di Washington nel fatto che si sarebbero compiute, furono momentaneamente dimenticate dopo il 1991, quando il crollo dell'Unione Sovietica e la presunta vittoria dell'America nella guerra fredda dettero inizio alla nuova ideologia americana del trionfalismo. Tutta la storia del nemico sovietico “vinto” da allora sarebbe stata proposta dalla stampa americana come “sette decenni di duro e spietato stato di polizia”, come “ferita inferta al popolo”, che lo fece soffrire “la maggior parte del secolo”, come un'esperienza che era risultata “in tutto e per tutto perfino un male peggiore di quello che supponevamo”. L'accusa lanciata da Reagan all'indirizzo dell'Unione Sovietica – “impero del male”–, che questi, sotto l'influsso delle riforme gorbacioviane, aveva ritirato con gioia solo tre anni prima, acquistava di nuovo valore. E un influente columnist americano dichiarò perfino che una “Russia fascista” sarebbe stata “molto meglio”. 2) In modo simile reagirono anche gli studiosi americani, parte dei quali subì pure l'influenza della “fede trionfalista”. Con poche eccezioni preferirono tornare ai vecchi assiomi sovietologici, secondo i quali il sistema sovietico era sempre irriformabile e il suo destino era segnato. La “via di mezzo evolutiva” proposta da Gorbačëv “era una chimera”, come a suo tempo la NEP, un tentativo di “riformare l'irriformabile”, cosicché l'Unione Sovietica sarebbe finita per “carenza di alternative”. Perciò la maggior parte degli studiosi non si poneva già più domande tipo: forse un'Unione Sovietica riformata sarebbe un futuro migliore per la Russia post-comunista oppure una qualsiasi altra delle repubbliche dell'Unione? Al contrario, insistevano che tutto ciò che era sovietico “doveva essere rigettato” per la sua inutilità e “tutto l'edificio dei rapporti politico-economici doveva essere distrutto del tutto” – convinzione che confluiva nell'entusiastico appoggio americano alle misure estreme che El'cin portò avanti negli anni '90. Il riesame della storia dell'Unione Sovietica richiedeva anche il riesame delle idee sul suo ultimo leader. Quello che fu un tempo riconosciuto come “radicale n. 1” dell'Unione Sovietica, che veniva applaudito per il suo “coraggio”, Gorbačëv adesso era accusato tanto di carenza di “decisione e produttività”, quanto di carenza di “radicalismo”. Il leader che, quand'era al potere, diceva di se “Tutto ciò che fa parte della filosofia è comparso inizialmente come un'eresia e in politica come opinione di una minoranza” e che per “eresia” in politica era odiato dai propri fondamentalisti comunisti, era disprezzato come persona “senza profonde convinzioni” e perfino come “comunista ortodosso”. La fede di Gorbačëv in un “socialismo dal volto umano” generò una caparbia reazione ideologica, che favorì anche l'affermazione del pensiero che il mercato e la democrazia fossero stati portati in Russia da El'cin. L'idea che le misure pro-democrazia di Gorbačëv fossero insufficientemente radicali ostacola la comprensione della fatale differenza tra il suo approccio e l'approccio di El'cin. Da Pietro I fino a Stalin il metodo principale di trasformazione del potere in Russia è stato la “rivoluzione dall'alto”, che imponeva dolorosi mutamenti alla società per mezzo della coercizione statale. Le misure eltsiniane dei primi anni '90, che presero il nome di “terapia d'urto”, nonostante il diverso scopo perseguito di principio, continuarono questa viziosa tradizione. Gorbačëv rifiutò categoricamente questa tradizione. Fu decisamente orientato fin dall'inizio a condurre il paese – per la prima volta nella sua storia plurisecolare – attraverso un momento di rivolgimento senza spargimento di sangue. La perestrojka, dichiarò, è la “chance storica di modernizzare il paese per mezzo delle riforme, cioè con mezzi pacifici”, un processo “rivoluzionario per contenuto, ma evolutivo per metodo e forma di cambiamento”. Ciò significava che la “causa della perestrojka” iniziata dall'alto era trasmessa “nelle mani del popolo” per mezzo della “democratizzazione di tutte le sfere della vita della società sovietica”. E' noto quale prezzo pagò Gorbačëv per la “riforma democratica” (per la persona al potere – già un'eresia nel suo genere) da lui scelta come alternativa alla storia russa di trasformazioni violente. Nelle condizioni di sconvolgimento politico e sociale degli anni '90 eltsiniani e post-sovietici, gli storici russi e gli altri intellettuali, a differenza dei loro colleghi americani, hanno cominciato a reinterpretare le conseguenze del crollo sovietico. Sempre più persone sono giunte alla conclusione che una determinata forma di perestrojka gorbacioviana o di “evoluzione non catastrofica”, anche senza di lui, fosse una chance di democratizzare e introdurre nell'economia di mercato il paese con metodi meno traumatici e costosi, cioè più efficaci di quelli scelti sotto El'cin. Su questo tema storici (e politici) russi discuteranno ancora per lunghi anni, ma il destino della democratizzazione del paese mostra perché alcuni di loro sono convinti già ora che l'approccio di Gorbačëv sia stato un'“alternativa lasciata sfuggire”. Esaminiamo in breve la “traiettoria”, come dicono gli specialisti, delle quattro componenti principali di qualsiasi democrazia, quella per cui si sono sviluppate in Russia prima e dopo la fine dell'Unione Sovietica nel dicembre 1991: Senza un numero significativo di mezzi di informazione di massa indipendenti gli altri elementi di democrazia, dalle elezioni regolari ai meccanismi di limitazione del potere e ai sistemi giudiziari non possono esistere. Negli anni 1985-86 Gorbačëv, in qualità di prima riforma importante, introdusse la glasnost', che significava la graduale riduzione della censura ufficiale. Il risultato fu la comparsa negli anni 1990-91 di un'enorme quantità di pubblicazioni indipendenti e, cosa molto più importante per quel tempo, di televisione, radio e giornali di stato liberi dalla censura in modo significativo. Il processo inverso cominciò dopo la vittoria di El'cin sulla GKČP [2] nell'agosto e la fine dell'URSS nel dicembre 1991. In entrambi i casi questi chiuse alcuni giornali di opposizione e ristabilì la censura del Cremlino sulla televisione. Queste furono misure temporanee; un controllo più continuo sui mezzi di informazione di massa russi post-sovietici fu stabilito dopo la distruzione armata del parlamento russo da parte di El'cin nel 1993 e i suoi decreti “di privatizzazione”, che resero un gruppo ristretto di persone, note come “oligarchi”, proprietario delle principali ricchezze del paese, tra cui i mezzi di informazione di massa. Le elezioni presidenziali del 1996, che El'cin quasi perse contro il candidato del Partito Comunista, significarono la fine dei falsamente liberi e indipendenti mezzi di informazione di massa a livello nazionale nella Russia post-sovietica. Nonostante il fatto che un qualche pluralismo e un qualche giornalismo indipendente nei mezzi di informazione di massa continuasse a conservarsi, questo era, fondamentalmente, una conseguenza delle guerre intestine tra i loro oligarchici proprietari e un effetto residuo della glasnost' gorbacioviana – questi si degradavano irrevocabilmente. Come più tardi sottolineò il direttore di uno dei principali giornali dei tempi della perestrojka e post-sovietici, “nel 1996 il potere russo e… i maggiori gruppi d'affari… utilizzarono insieme i mezzi di informazione di massa, in primo luogo la televisione, per la manipolazione ai propri scopi del comportamento degli elettori – e ottennero un successo palpabile. Da allora né il potere, né gli oligarchi hanno più mollato questa arma”. 3) Altri giornalisti russi, paragonando la propria esperienza di lavoro sotto Gorbačëv con quella sotto El'cin e Putin, hanno dato la preferenza al primo. Ecco, tuttavia, l'opinione dell'americano informato, il capo dell'organizzazione di monitoraggio internazionale, espresso da questi nel 2005: “Negli anni della glasnost' il giornalismo coraggioso sfondava le porte chiuse della storia, accendeva roventi dibattiti sulla democrazia multipartitica e ispirava i cittadini sovietici alla libertà di parola… Ma nella Russia di oggi i giornalisti coraggiosi sono in pericolo… I reportage su temi socialmente significativi sono sottoposti a un controllo sempre più duro e il pubblico resta nell'ignoranza quanto a corruzione, criminalità e violazioni dei diritti umani”. 4) Per questa “traiettoria” si sono sviluppate anche le elezioni russe. Le prime elezioni nazionali per il Consiglio dei Deputati del Popolo dell'URSS su base alternativa nella storia sovietica ebbero luogo nel marzo 1989. E anche se metà dei deputati furono eletti dalle organizzazioni e non dal voto popolare, questo fu uno slancio in avanti storico, che segnò la campagna gorbacioviana di democratizzazione. Presto ne seguirono anche altri. Le elezioni dell'organo legislativo corrispondente della RSFSR [5] all'inizio del 1990 restano finora le più libere e regolari elezioni parlamentari mai tenute in Russia. Lo stesso si può dire delle nuove, per il paese, elezioni del presidente della Federazione Russa del 1991, nelle quali il rivoltoso El'cin batté con grande slancio il candidato del Cremlino. Fino al crollo dell'Unione Sovietica non ci furono più in Russia né elezioni parlamentari, né presidenziali e quelle che ebbero luogo in seguito, anche se mantennero un innocuo grado di concorrenza, di volta in volta furono sempre meno libere e regolari. Verso il 1996 fu creata una sufficiente quantità di “tecnologie politiche” per la “democrazia guidata”, più tardi legata al nome di Vladimir Putin: massimo utilizzo di mezzi finanziari, controllo sui mezzi di informazione di massa, riduzione dei diritti dei candidati e dei partiti indipendenti e falsificazione dei risultati delle votazioni – per garantire il mantenimento del potere effettivo indipendentemente da chi governi concretamente la Russia. Perfino i risultati del referendum, chiamato, come dissero, a ratificare la nuova costituzione eltsiniana nel 1993, furono – a differenza del referendum gorbacioviano sull'Unione del 1991 – quasi certamente falsificati. La cosa più evidente è che l'elezione di El'cin a presidente della RSFSR nel 1991 fu il primo e l'ultimo caso in cui il potere esecutivo passò liberamente dal Cremlino al candidato dell'opposizione. Nel 2000 El'cin trasmise il potere a Putin già attraverso elezioni “guidate” e Putin nel 2008 in modo analogo fece suo erede Medvedev. Perfino uno specialista americano che guardava alle riforme gorbacioviane senza simpatia giunse alla conclusione che “sotto Gorbačëv le elezioni erano meno prefissate e mendaci della maggior parte delle campagne parlamentari e presidenziali post-sovietiche in Russia”. Un commentatore russo si espresse più chiaramente: “Il picco di democrazia elettorale nel nostro paese si ebbe alla fine della perestrojka”. 5) Ma nessuno dei risultati democratici dell'epoca di Gorbačëv ha avuto maggiore significato e ha subito una degradazione più fatale degli organi legislativi sovietici eletti dal popolo per sua iniziativa negli anni 1989-1990. La democrazia può esistere senza un potere esecutivo indipendente, ma è impossibile senza un parlamento sovrano o un suo equivalente – un unico immutabile istituto di potere rappresentativo. Dagli zar ai segretari generali l'autoritarismo russo si è distinto per l'indubbia prevalenza del potere esecutivo con l'assenza o la cattiva sorte dell'assemblea rappresentativa, sia la Duma zarista del periodo prerivoluzionario, l'Assemblea Costituzionale degli anni 1917-1918 o i Soviet eletti dal popolo. In questo contesto il Congresso dei deputati del popolo dell'URSS formato nel 1989 e il suo analogo repubblicano russo del 1990, ognuno dei quali elesse il proprio Soviet Supremo in qualità di parlamento in funzione permanente, sono state il risultato storicamente più significativo delle misure democratiche di Gorbačëv. Il primo agiva come sempre più indipendente Convenzione costituzionale, approvando leggi per l'ulteriore democratizzazione dell'Unione Sovietica per mezzo di una distribuzione dei poteri che in precedenza erano monopolio degli zar o dei commissari e anche creando ogni possibile commissioni di ricerca e intervenendo come fonte di opposizione a Gorbačëv. Il secondo fece lo stesso nella Repubblica Russa, fra l'altro la sua più importante innovazione legislativa fu l'istituzione del potere presidenziale elettivo. Peraltro Gorbačëv era così incline al reale potere legislativo come componente inalienabile della democratizzazione che nel 1990 acconsentì di malavoglia ad assumere la carica esecutiva di presidente, temendo che ciò potesse limitare l'indipendenza del Soviet Supremo e poi, con grande amarezza, soffrì i crescenti attacchi dei deputati all'indirizzo della sua leadership. Vent'anni dopo il parlamento post-sovietico russo, rinominato Duma, è divenuto quasi la copia esatta dei suoi più deboli e obbedienti predecessori di epoca zarista è il potere presidenziale ha acquisito prerogative quasi assolute. La via verso questo fatale mutamento è stata segnata da due svolte. La prima si è verificata alla fine del 1991, quando al parlamento sovietico toccò giocare solo un ruolo insignificante negli avvenimenti che precedettero lo scioglimento dell'Unione Sovietica e assolutamente nessuno nello scioglimento stesso. Il secondo avvenne nell'autunno del 1993, quando El'cin interruppe con la forza l'attività del parlamento russo del 1990 e mise in atto una costituzione superpresidenziale. Infine, una democrazia vitale ha bisogno di elite di governo, a cui l'accesso sia aperto, perlomeno di tanto in tanto, per i rappresentanti di altri partiti, di strutture non statali e della società civile. Al momento iniziale della perestrojka l'autonominata nomenklatura sovietica concentrava nelle proprie mani tutto il potere politico e perfino la stessa partecipazione alla politica. La distruzione di questo monopolio con la garanzia della possibilità di una comparsa di nuove figure politiche di diversi strati sociali e professionali – di modo che come sindaci di Mosca e Pietroburgo furono eletti un dottore in economia e un professore di diritto – fu un altro slancio in avanti democratico dell'epoca di Gorbačëv. Nel 1990 queste persone erano già una minoranza significativa nel parlamento dell'Unione e la maggioranza in quello russo. Dopo il 1991 questo risultato era già stato capovolto. L'elite di governo post-sovietica presto si trasformò in un gruppo ristretto, costituito per la maggior parte dall'entourage personale del leader, dagli oligarchi finanziari e dai loro rappresentanti, dai funzionari statali e dagli uomini delle strutture armate (gli uomini delle forze armate e dei servizi segreti). La crescita del numero di questi ultimi agli alti livelli di potere, per esempio, viene legata di solito all'arrivo di Putin, ex colonnello del KGB, ma questo processo iniziò già presto dopo il crollo sovietico. Fino al 1992, cioè sotto Gorbačëv, gli uomini delle strutture armate erano il 4% dell'elite di governo; sotto El'cin il loro numero aumentò più di quattro volte – fino al 17% e sotto Putin si è ancora triplicato – quasi fino al 50%. La situazione della società civile si è sviluppata di conseguenza. Qualunque cosa dicano là le persone che si definiscono “promoter” della società civile, questa esiste sempre, perfino nei sistemi autoritari. Ma nella Russia post-sovietica la maggior parte dei suoi rappresentanti verso la fine degli anni '90 è ricaduta nella passività di prima della perestrojka, preferendo agire sporadicamente o non agire affatto. Questa svolta è stata causata da alcuni fattori, fra cui la stanchezza, il disincanto, la rioccupazione dello stato da parte della sfera politica e anche l'effetto da knock-out della “terapia d'urto” eltsiniana dei primi anni '90, che ha tolto di mezzo un decimo delle un tempo ampie e professionali classi medie sovietiche, considerate il presupposto di una democrazia stabile. Aleksandr Jakovlev, partner di Gorbačëv nella democratizzazione, pronunciò alla vigilia del ventesimo anniversario della perestrojka “una frase blasfema: un tale strappo tra la vetta al potere e il popolo non c'è mai stato nella storia russa”. E' stata una vera e propria esagerazione, ma comunque esprimeva il destino di ciò che questi e Gorbačëv avevano iniziato un tempo. A dirla in breve, questi quattro segni testimoniano che la democratizzazione russa dopo la fine dell'Unione Sovietica si è sviluppata secondo una traiettoria declinante. Gli altri processi politici si sono mossi nella stessa direzione. Il costituzionalismo e la supremazia della legge erano i principi guida delle riforme gorbacioviane. Questi non dominavano sempre, ma mostravano un netto contrasto con i metodi eltsiniani, che nel 1993 distrussero tutto l'ordine costituzionale creato, dal parlamento e dalla Corte Costituzionale che aveva appena preso forma fino ai rinati soviet a livello di governo locale. Poi, fino alla fine degli anni '90, El'cin governò principalmente per mezzo di decreti, emettendone 2300 in un solo anno. Ascesa e caduta si osservarono a quel tempo anche nell'atteggiamento ufficiale verso i diritti umani, che serve sempre da indicatore sensibile del livello di sviluppo di una democrazia. A questo riguardo in uno studio occidentale pubblicato nel 2004 si diceva: “La quantità di violazioni dei diritti umani in Russia è cresciuta in modo impressionante dal momento del crollo dell'Unione Sovietica”. La conclusione sembra evidente: la democratizzazione sovietica, per quanto dittatoriale fosse stata la storia precedente del sistema, è stata per la Russia una possibilità di democrazia lasciata sfuggire, una via evolutiva non percorsa. Nel contesto del trionfalismo americano e della sua correttezza politica, questa conclusione suona eretica, ma non nella Russia post-sovietica. Perfino i precedenti sostenitori di El'cin più tardi hanno rivisto le proprie posizioni, quelle che avevano negli anni 1990-1991. Guardandosi indietro, uno di essi ha ammesso: “Gorbačëv (…) ci ha donato le libertà politiche – gratis, senza sangue. La libertà di stampa, di parola, di manifestazione, di riunione, di avere un sistema multipartitico”. Un altro ha precisato: “Quale uso abbiamo fatto di queste libertà è già un problema e una responsabilità nostra e non sua”. E un terzo, che appoggiò politicamente El'cin nella decisione di sciogliere l'Unione, si è posto una domanda: “Come sarebbe stato lo sviluppo del paese?” – se avesse continuato a esistere. 6) Vent'anni dopo, dopo la fine dell'esistenza dello stato sovietico, la maggior parte degli osservatori occidentali ha concordato nell'idea che in Russia vada avanti un profondo processo di “de-democratizzazione”. I tentativi di chiarire quando e perché sia cominciato evidenziano di nuovo le differenze di principio tra il pensiero degli specialisti occidentali, in particolare americani, e di quelli russi. La maggior parte dei commentatori americani, dopo aver eliminato le riforme di Gorbačëv dalla “malefica” storia dell'Unione Sovietica e aver ascritto il merito della democratizzazione a El'cin, ha accusato Putin di “aver condotto la Russia nella direzione opposta”. Solo pochi specialisti americani non hanno condiviso questa opinione, dando la colpa dell'inizio del “declino delle riforme democratiche” non a Putin, ma al suo predecessore El'cin. Ancora meno in America – evidentemente per paura di dubitare in “uno dei grandi momenti della storia” – sono quelli che si chiedono se il “declino” non sia iniziato ancora prima, proprio con il crollo dello stato sovietico. Che giornalisti e politici non esaminino questa possibilità si può ancora capire. Ma perfino solidi studiosi, che in seguito si sono pentiti del proprio “ottimismo” nei confronti della leadership eltsiniana, non si mettono a riesaminare la propria posizione sulla fine dell'Unione Sovietica. Ma dovrebbero farlo, in quanto il modo in cui è avvenuto questo crollo – in circostanze che le valutazioni occidentali standard principalmente tacciono o mitologizzano – non facevano presagire nulla di buono per il futuro della Russia. (Uno dei miti è quello del “pacifico” e “incruento” scioglimento dell'Unione. In realtà nei conflitti etnici esplosi presto in Asia Centrale e nel Caucaso sono state uccisi o privati con violenza di una patria centinaia di migliaia di cittadini e le conseguenze post-sovietiche di questa esplosione nucleare si fanno ancora vedere, come ha mostrato la guerra del 2008 in Georgia.) Nel senso più generale, ci sono stati minacciosi paralleli tra il crollo dell'Unione Sovietica e la fine dello zarismo nel 1917. In entrambi i casi il modo in cui si è fatta finita con il vecchio ordine ha causato la quasi totale distruzione dello stato russo, che ha gettato il paese a lungo nel caos, nei conflitti e nella miseria. (Il termine “Smuta” [10], con cui i russi chiamano ciò che è seguito, è pieno di paura per il futuro, di paura che deriva dalla precedente esperienza storica e che non viene trasmesso dalla tradizionale traduzione inglese «Time of Troubles». In questo senso la fine dell'Unione Sovietica è legata non solo allo specifico del sistema sovietico, quanto alle rotture dello stato che si ripetono nella storia russa.) Le conseguenze del 1991 e del 1917, nonostante importanti differenze, sono state simili. Le speranza di un processo evolutivo in direzione di democrazia, progresso [11] e giustizia sociale sono state di nuovo infrante; un piccolo gruppo di radicali ha imposto misure estreme alla nazione; la lotta attiva per la proprietà e il territorio, facendolo a pezzi, ha rotto le basi di uno stato multietnico, stavolta dotato anche di armi nucleari e i vincitori hanno distrutto le importanti strutture stabili, economiche e di altro tipo, per crearne di assolutamente nuove, “come se il passato non ci fosse stato”. Le elite hanno agito di nuovo in nome di idee e di un futuro migliore, ma hanno lasciato una società nettamente divisa davanti alla “domanda maledetta” di turno: perché è successo? E la gente comune ha di nuovo pagato per tutto, fra l'alto con un catastrofico calo del livello e della durata della vita. Alla base del materiale preparato per la “Novaja gazeta” c'è il testo di uno dei capitoli del libro del professore dell'università di New York Stephen Cohen “Soviet Fates and Lost Alternatives: From Stalinism to the New Cold War” [12], pubblicato recentemente negli USA dalla casa editrice Columbia University Press. Traduzione di Irina Davidjan 1. Èduard Samojlov, “Nezavisimaja gazeta” [1], 13 ottobre 1992
2. Nicholas D. Kristof, “New York Times”, 15 dicembre 2004
3. Vitalij Tret'jakov, “Rossijskaja gazeta” [3], 19 novembre 2003
4. Ann Cooper, direttore esecutivo del Comitato per la difesa dei giornalisti, “Moscow Times” [4], 17 luglio 2005
5. M. Steven Fish, “Democratisation” (Primavera 2005), p. 248 e Aleksansdr Kolesničenko, “Novye Izvestija” [6], 13 novembre 2006
6. Larisa Pijaševa, “Pravda”, 21 aprile 1995; Lilija Ševcova, “Mnogaja leta: Michailu Gorbačëvu – 70” [7], a cura di V. Tolstych, Мosca, 2001, pag. 453; Gavriil Popov [8], “Snova v oppozicii” [9], Мosca, 1994, pag. 81. Stephen Cohen
speciale per la “Novaja gazeta” 16.12.2009, “Novaja gazeta”, http://www.novayagazeta.ru/data/2009/140/21.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni) |