| Ivan SUCHOV, 25.02.2010 09:12
Alla fine di febbraio per molti cittadini lavoratori è stata messo da parte un'altra festività inattesa, dedicata al Giorno del Difensore della Patria, noto in passato come Giorno dell'Esercito e della Marina Militare Sovietici. In forza della tradizione questa data in generale aveva cessato di essere una festa professionale dei militari e si era trasformata in uno strano contrappeso di gender del “giorno della donna” dell'8 marzo. Tra l'altro la data del 23 febbraio è dubbia da tutti i punti di vista e talvolta pare che sarebbe più adeguato fare di questo giorno un giorno di lutto. Nessuna gloria militare della storia russa è legata a questo giorno e peraltro questo ogni anno coincide con il giorno della memoria della totale deportazione del popolo ceceno e di quello inguscio – un avvenimento tragico, che spiega molto della politica caucasica contemporanea e dei rapporti degli abitanti del Caucaso settentrionale con tutti gli altri russi.
Si ritiene pure che nel Caucaso la pace, la Cecenia e l'Inguscezia vivano l'ennesima sciagura. Subito prima della festività nel bosco al confine tra di esse un grande gruppo di poveri paesani che raccoglievano aglio orsino si è trovata in una zona di operazioni speciali delle forze federali. Secondo i comunicati ufficiali, alcuni civili sono caduti sotto il fuoco sotto il fuoco incrociato delle forze federali e dei militanti, ma un testimone sopravvissuto per miracolo, un ceceno di 19 anni, dice che non c'è stato un fuoco incrociato. Che i federali, evidentemente, hanno preso lui e I suoi amici per militanti, perché altrimenti è difficile spiegare perché li hanno fatti prigionieri e in seguito abbiano ucciso a colpi d'arma da fuoco alcuni di loro. I presidenti di entrambe le repubbliche Ramzan Kadyrov e Junus-Bek Evkurov hanno cercato di far luce sull'accaduto, ma ciò è sempre difficile quando si tratta delle strutture armate.
Su questo sfondo in Inguscezia è quasi successo uno scandalo: è venuto a conoscenza dell'opinione pubblica locale il piano delle iniziative del presidente Junus-Bek Evkurov, che, essendo egli stesso un militare, si preparava a festeggiare i colleghi. Al presidente è toccato invitare gli sconvolti abitanti della repubblica e spiegare che nel giorno di lutto non ci sarebbe stato e non avrebbe potuto esserci alcun festeggiamento. E, perché le date non si incrociassero, fare una visita formale di festeggiamento ai reparti militari alla vigilia, il 22 febbraio.
Fare gli auguri a un ceceno o a un inguscio per il Giorno del Difensore della Patria non è tanto un'offesa, quanto un'estrema mancanza di tatto. Tuttavia la televisione nella festività non ha fatto altro che fare gli auguri. E su un canale centrale hanno mostrato una dopo l'altra tutte le puntate di un serial sull'ultima guerra cecena, in cui ceceni erano indubbiamente il Male e i militari russi il Bene assoluto. Chissà perché a nessuno dei capi televisivi e politici del paese, che si considera multietnico, è venuto in mente come tutto questo “bene” appaia, per esempio, in un villaggio dove hanno appena sepolto dei raccoglitori di agli orsino uccisi, eppure i televisori funzionano anche là. E molti, se non tutti, considerano se stessi e le proprie famiglie vittime dei “difensori della Patria”.
Fra l'altro ieri, 24 febbraio, ha ricordato il giorno della propria indipendenza l'ex repubblica sovietica di Estonia. Nonostante l'ostentata preoccupazione delle autorità russe per le persone di etnia russa che 19 anni dopo la caduta dell'URSS costituiscono quasi un terzo della popolazione di questo piccolo paese, il giorno dell'indipendenza dell'Estonia in Russia non è entrato nella lista dei temi televisivi. Eppure le nostre feste non a caso si ricordano di seguito.
Il 24 febbraio 1918 a Revel' (così allora si chiamava Tallin) ebbe termine il potere dei bolscevichi, mantenutosi là assai poco, e il comitato di salvezza nazionale dichiarò l'Estonia repubblica democratica indipendente. Esattamente il giorno seguente i tedeschi entrarono a Revel'. Ma l'indipendenza proclamata da un giorno bastò perché le potenze europee la riconoscessero. Quando la stessa Germania del Kaiser cadde nel novembre 1918, il precedente del 24 febbraio divenne la base per la formazione di un paese indipendente. L'unione dei paesi baltici all'URSS nel 1940 non fu così riconosciuta legale dalla maggior parte dei paesi occidentali, finché l'URSS nella fase finale della propria esistenza, nel settembre 1991, non acconsentì alla sovranità di Estonia, Lettonia e Lituania.
Il 24 febbraio 1918 i bolscevichi si muovevano ardentemente verso la conclusione della pace di Brest-Litovsk con i tedeschi, pesantissima per la Russia. Alla firma dell'accordo mancavano solo un attacco tedesco e esattamente una settimana di tempo. L'attacco dei tedeschi, sferrato il 24 febbraio, si rivelò un po' più reale dei semi-mitici successi dell'appena creata Armata Rossa presso Pskov [1] e Narva: se anche ci furono, risultarono cancellate da Brest. Cosicché il senso di orgoglio militare russo nel giorno 23 febbraio sembra un po' stiracchiato.
Neanche con la deportazione di ceceni e ingusci è tutto semplice. Ceceni e ingusci certamente non furono gli unici a cadere sotto il rullo compressore delle repressioni staliniane in generale e delle deportazioni in particolare. Per primi nel volano della deportazione totale nell'agosto 1941 finirono i 367000 tedeschi del Volga [3]. Ad essi in parte seguirono ungheresi, bulgari e finlandesi – per il motivo che i loro paesi di origine combattevano dalla parte della Germania hitleriana. In seguito, in pratica totalmente, furono deportati calmucchi [4], carachi [5], balcari [6], tatari di Crimea, nogai [7], turchi della Moschia [8], greci del Ponto. In parte bulgari, zingari della Crimea, curdi.
Ceceni e ingusci si rivelarono semplicemente di voce più forte degli altri. Il giorno dell'operazione “Lenticchia” [9], il 23 febbraio 1944, quando gli agenti dello NKVD [10] portarono via dalle loro case 362000 ceceni e 134000 ingusci, li caricarono su vagoni non riscaldati e li inviarono nell'orribile gelo di febbraio nelle nude steppe del Kazakistan, è diventato più noto delle date delle deportazioni dei tedeschi del Volga o, mettiamo, dei carachi.
La Cecenia ebbe la sua Chatyn' [11] – Chajbach [12], i cui abitanti, che avevano rifiutato di trasferirsi, furono bruciati vivi. Un enorme numero di persone rimase congelato per la strada. Ma quelli che sopravvissero furono forgiati da molte comunità agrarie sparse e da tejp [13] arcaici in un'integrità etnica. Naturalmente nella loro carta del mondo l'odio aveva un posto enorme. Accumulato nelle relativamente recenti memorie della Grande Guerra Caucasica del XIX secolo, del generale Ermolov [14] e dell'imam Šamil' [15], fu rafforzato cento volte dalla deportazione.
Per chiarezza immaginate cosa sentireste nei confronti di uno stato che non passasse semplicemente le vostre città al pettine della repressione, ma un bel giorno trasformasse tutto il vostro popolo, senza differenze di sesso e di età, dai piccoli ai grandi, in prigionieri senza diritti. Che vi scaraventasse in vagoni merci congelati e vi portasse in una steppa lontana e straniera per 13 lunghi anni. E poi tra i denti vi permettesse di tornare, senza scusarsi di nulla, ma come continuando a guardarvi storto.
Il cronista del GULAG Aleksandr Solženicyn, visti i ceceni esiliati in Kazakistan, li pose a parte tra tutte le altre vittime per motivi etnici: “I ceceni... sono pesanti per gli abitanti dei dintorni... rozzi, sfacciati, non amano apertamente i russi. Ma meritava... mostrare l'indipendenza, il coraggio – e la condiscendenza dei ceceni era allora conquistata! Quando ci sembra che ci rispettino poco – bisogna verificare se viviamo così”.
E altrove: “C'era un'etnia che non si era affatto arresa alla psicologia della sottomissione. Non delle persone isolate, non dei rivoltosi, ma tutta l'etnia al completo. Si tratta dei ceceni... Dopo che una volta li avevano strappati ai loro luoghi con fare da traditori, questi ancor di più non credevano a nulla... in nessun posto cercarono di soddisfare o piacere ai capi – ma furono sempre orgogliosi davanti a loro e perfino apertamente ostili. Disprezzando le leggi dell'istruzione generale e quelle scienze scolastiche di Stato, non facevano andare a scuola le loro bambine, perché non si sciupassero là e non ci facevano andare neanche tutti i bambini. Non mandavano le loro donne al kolchoz. Ed essi stessi non si curvavano nei campi dei kolchoz. Più di tutto cercavano di diventare autisti: star dietro a un motore non è umiliante, nel continuo movimento dell'automobile trovavano la soddisfazione delle loro passioni da džigit [16], nelle possibilità degli autisti quella delle loro passioni ladresche. Fra l'altro quest'ultima passione la soddisfacevano anche immediatamente. Portarono nel pacifico, onesto, sonnacchioso Kazakistan un concetto: “hanno rubato”, “hanno ripulito”. Potevano trafugare bestiame, depredare una casa e talvolta anche semplicemente strappare qualcosa con la forza. Gli abitanti locali e quei deportati che così facilmente si sottomettevano ai capi, li valutavano quasi come della loro stessa natura. Rispettavano solo i rivoltosi”.
Non stupisce che questo rispetto per i rivoltosi sia esploso poi, 35 anni dopo l'“amorevole” concessione di tornare a casa, con due pesantissime guerre. In cui divennero comandanti quelli che erano nati in esilio e soldati i loro figli. E soffrirono tra gli altri i vecchi, che ricordavano la deportazione.
Io, persona di una famiglia in cui c'è a chi fare gli auguri il 23 febbraio per la festa dei militari di professione, non dimenticherò mai due vecchi caucasici piegati dall'età con un abisso assoluto di delusione negli occhi scoloriti. Un ceceno, che si era rifugiato in un freddo vagone cuccetta in mezzo a un campo innevato, in un treno dato come abitazione ai profughi della Groznyj distrutta. Come un telescopio si era tutto rannicchiato e si copriva la testa con le mani, quando sul pavimento del vagone spostavano uno sgabello – gli sembrava che di nuovo tuonasse una cannonata. E un inguscio, che aveva combattuto con i tedeschi nella Grande Guerra Patriottica [17] ed era stato ferito così gravemente presso Novorossijsk [18] che avevano comunicato alla sua famiglia che non sarebbe sopravvissuto. Quando tornò a casa dal fronte risultò che la sua famiglia, tutto il villaggio e tutto il popolo erano stati deportati in Kazakistan. E nel 1992 la sua famiglia si trovò nel pieno del conflitto osseto-inguscio nel distretto Prigorodnyj [19], il quale (conflitto) di per se è stata eredità diretta della deportazione degli ingusci. 15 anni dopo il conflitto nel distretto Prigorodnyj sedeva presso la sua roulotte da profugo e con gli occhi mezzi accecati guardava il suo vecchio giardino, che si trovava a 500 metri di distanza. Ma dall'altra parte della frontiera amministrativa impossibile da attraversare per lui tra due regioni russe – l'Inguscezia e l'Ossezia del Nord.
Alcuni storici ossequenti della “civiltà sovietica” ricordano che le deportazioni staliniane, in primo luogo, non furono un “esperimento” unico: il governo zarista negli anni 1860-1870 inizialmente esiliò in pianura i montanari del Caucaso settentrionale, proponendo ai dissenzienti di andare nella confinante Turchia, e poi deportò gli inaffidabili dei distretti presso il fronte in una guerra imperialistica. E in secondo luogo, le deportazioni erano effettivamente ritenute “deportazioni di vendetta”. Il cavallo di razza Akhal-Teke [20], che sarebbe stato donato a Hitler dai ceceni, è probabilmente un mito, ma pochi ricordano che agli inizi degli anni '40, fra l'altro nel momento in cui la Wehrmacht tedesca sferrava l'attacco al Caucaso settentrionale, sui monti della Cecenia divampavano insurrezioni antisovietiche, per schiacciare le quali toccò, quasi come negli anni '90 e 2000, usare l'aviazione militare.
Ma anche in questo sta il problema, che nessuno in Russia vuol fare luce su come sono andate le cose in realtà. Dove sono motivi di incrudelimento reciproco. Lo si può superare e se sì, come? Il giorno del lutto e della memoria del 23 febbraio potrebbe diventare il giorno del riconoscimento e della riconciliazione. Ma non lo diventerà, finché preferiremo festeggiare mentre parte dei nostri concittadini si addolora. Finché ci sembrerà che il pentimento tedesco per il nazismo sia un goffo e complessato tributo a una stupida correttezza politica e non l'unico modo per la società di riabilitarsi, fra l'altro non nel senso giuridico, ma piuttosto nel senso medico della parola.
Ceceni e ingusci in Russia sono circa 1,5 milioni – qualcosa di più dell'1% della popolazione del paese. Qualcuno dirà che è troppo poco per farci attenzione, ma qualcuno, al contrario, che è troppo, in particolare dopo tutte le deportazioni, le guerre e in generale le spiacevolezze causate alla “maggioranza etnica”. Ma dove si può sputare sull'1%, di regola, è facile sputare anche sul restante 99%.
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| Ivan SUCHOV, 25.02.2010 09:12
Alla fine di febbraio per molti cittadini lavoratori è stata messo da parte un'altra festività inattesa, dedicata al Giorno del Difensore della Patria, noto in passato come Giorno dell'Esercito e della Marina Militare Sovietici. In forza della tradizione questa data in generale aveva cessato di essere una festa professionale dei militari e si era trasformata in uno strano contrappeso di gender del “giorno della donna” dell'8 marzo. Tra l'altro la data del 23 febbraio è dubbia da tutti i punti di vista e talvolta pare che sarebbe più adeguato fare di questo giorno un giorno di lutto. Nessuna gloria militare della storia russa è legata a questo giorno e peraltro questo ogni anno coincide con il giorno della memoria della totale deportazione del popolo ceceno e di quello inguscio – un avvenimento tragico, che spiega molto della politica caucasica contemporanea e dei rapporti degli abitanti del Caucaso settentrionale con tutti gli altri russi.
Si ritiene pure che nel Caucaso la pace, la Cecenia e l'Inguscezia vivano l'ennesima sciagura. Subito prima della festività nel bosco al confine tra di esse un grande gruppo di poveri paesani che raccoglievano aglio orsino si è trovata in una zona di operazioni speciali delle forze federali. Secondo i comunicati ufficiali, alcuni civili sono caduti sotto il fuoco sotto il fuoco incrociato delle forze federali e dei militanti, ma un testimone sopravvissuto per miracolo, un ceceno di 19 anni, dice che non c'è stato un fuoco incrociato. Che i federali, evidentemente, hanno preso lui e I suoi amici per militanti, perché altrimenti è difficile spiegare perché li hanno fatti prigionieri e in seguito abbiano ucciso a colpi d'arma da fuoco alcuni di loro. I presidenti di entrambe le repubbliche Ramzan Kadyrov e Junus-Bek Evkurov hanno cercato di far luce sull'accaduto, ma ciò è sempre difficile quando si tratta delle strutture armate.
Su questo sfondo in Inguscezia è quasi successo uno scandalo: è venuto a conoscenza dell'opinione pubblica locale il piano delle iniziative del presidente Junus-Bek Evkurov, che, essendo egli stesso un militare, si preparava a festeggiare i colleghi. Al presidente è toccato invitare gli sconvolti abitanti della repubblica e spiegare che nel giorno di lutto non ci sarebbe stato e non avrebbe potuto esserci alcun festeggiamento. E, perché le date non si incrociassero, fare una visita formale di festeggiamento ai reparti militari alla vigilia, il 22 febbraio.
Fare gli auguri a un ceceno o a un inguscio per il Giorno del Difensore della Patria non è tanto un'offesa, quanto un'estrema mancanza di tatto. Tuttavia la televisione nella festività non ha fatto altro che fare gli auguri. E su un canale centrale hanno mostrato una dopo l'altra tutte le puntate di un serial sull'ultima guerra cecena, in cui ceceni erano indubbiamente il Male e i militari russi il Bene assoluto. Chissà perché a nessuno dei capi televisivi e politici del paese, che si considera multietnico, è venuto in mente come tutto questo “bene” appaia, per esempio, in un villaggio dove hanno appena sepolto dei raccoglitori di agli orsino uccisi, eppure i televisori funzionano anche là. E molti, se non tutti, considerano se stessi e le proprie famiglie vittime dei “difensori della Patria”.
Fra l'altro ieri, 24 febbraio, ha ricordato il giorno della propria indipendenza l'ex repubblica sovietica di Estonia. Nonostante l'ostentata preoccupazione delle autorità russe per le persone di etnia russa che 19 anni dopo la caduta dell'URSS costituiscono quasi un terzo della popolazione di questo piccolo paese, il giorno dell'indipendenza dell'Estonia in Russia non è entrato nella lista dei temi televisivi. Eppure le nostre feste non a caso si ricordano di seguito.
Il 24 febbraio 1918 a Revel' (così allora si chiamava Tallin) ebbe termine il potere dei bolscevichi, mantenutosi là assai poco, e il comitato di salvezza nazionale dichiarò l'Estonia repubblica democratica indipendente. Esattamente il giorno seguente i tedeschi entrarono a Revel'. Ma l'indipendenza proclamata da un giorno bastò perché le potenze europee la riconoscessero. Quando la stessa Germania del Kaiser cadde nel novembre 1918, il precedente del 24 febbraio divenne la base per la formazione di un paese indipendente. L'unione dei paesi baltici all'URSS nel 1940 non fu così riconosciuta legale dalla maggior parte dei paesi occidentali, finché l'URSS nella fase finale della propria esistenza, nel settembre 1991, non acconsentì alla sovranità di Estonia, Lettonia e Lituania.
Il 24 febbraio 1918 i bolscevichi si muovevano ardentemente verso la conclusione della pace di Brest-Litovsk con i tedeschi, pesantissima per la Russia. Alla firma dell'accordo mancavano solo un attacco tedesco e esattamente una settimana di tempo. L'attacco dei tedeschi, sferrato il 24 febbraio, si rivelò un po' più reale dei semi-mitici successi dell'appena creata Armata Rossa presso Pskov [1] e Narva: se anche ci furono, risultarono cancellate da Brest. Cosicché il senso di orgoglio militare russo nel giorno 23 febbraio sembra un po' stiracchiato.
Neanche con la deportazione di ceceni e ingusci è tutto semplice. Ceceni e ingusci certamente non furono gli unici a cadere sotto il rullo compressore delle repressioni staliniane in generale e delle deportazioni in particolare. Per primi nel volano della deportazione totale nell'agosto 1941 finirono i 367000 tedeschi del Volga [3]. Ad essi in parte seguirono ungheresi, bulgari e finlandesi – per il motivo che i loro paesi di origine combattevano dalla parte della Germania hitleriana. In seguito, in pratica totalmente, furono deportati calmucchi [4], carachi [5], balcari [6], tatari di Crimea, nogai [7], turchi della Moschia [8], greci del Ponto. In parte bulgari, zingari della Crimea, curdi.
Ceceni e ingusci si rivelarono semplicemente di voce più forte degli altri. Il giorno dell'operazione “Lenticchia” [9], il 23 febbraio 1944, quando gli agenti dello NKVD [10] portarono via dalle loro case 362000 ceceni e 134000 ingusci, li caricarono su vagoni non riscaldati e li inviarono nell'orribile gelo di febbraio nelle nude steppe del Kazakistan, è diventato più noto delle date delle deportazioni dei tedeschi del Volga o, mettiamo, dei carachi.
La Cecenia ebbe la sua Chatyn' [11] – Chajbach [12], i cui abitanti, che avevano rifiutato di trasferirsi, furono bruciati vivi. Un enorme numero di persone rimase congelato per la strada. Ma quelli che sopravvissero furono forgiati da molte comunità agrarie sparse e da tejp [13] arcaici in un'integrità etnica. Naturalmente nella loro carta del mondo l'odio aveva un posto enorme. Accumulato nelle relativamente recenti memorie della Grande Guerra Caucasica del XIX secolo, del generale Ermolov [14] e dell'imam Šamil' [15], fu rafforzato cento volte dalla deportazione.
Per chiarezza immaginate cosa sentireste nei confronti di uno stato che non passasse semplicemente le vostre città al pettine della repressione, ma un bel giorno trasformasse tutto il vostro popolo, senza differenze di sesso e di età, dai piccoli ai grandi, in prigionieri senza diritti. Che vi scaraventasse in vagoni merci congelati e vi portasse in una steppa lontana e straniera per 13 lunghi anni. E poi tra i denti vi permettesse di tornare, senza scusarsi di nulla, ma come continuando a guardarvi storto.
Il cronista del GULAG Aleksandr Solženicyn, visti i ceceni esiliati in Kazakistan, li pose a parte tra tutte le altre vittime per motivi etnici: “I ceceni... sono pesanti per gli abitanti dei dintorni... rozzi, sfacciati, non amano apertamente i russi. Ma meritava... mostrare l'indipendenza, il coraggio – e la condiscendenza dei ceceni era allora conquistata! Quando ci sembra che ci rispettino poco – bisogna verificare se viviamo così”.
E altrove: “C'era un'etnia che non si era affatto arresa alla psicologia della sottomissione. Non delle persone isolate, non dei rivoltosi, ma tutta l'etnia al completo. Si tratta dei ceceni... Dopo che una volta li avevano strappati ai loro luoghi con fare da traditori, questi ancor di più non credevano a nulla... in nessun posto cercarono di soddisfare o piacere ai capi – ma furono sempre orgogliosi davanti a loro e perfino apertamente ostili. Disprezzando le leggi dell'istruzione generale e quelle scienze scolastiche di Stato, non facevano andare a scuola le loro bambine, perché non si sciupassero là e non ci facevano andare neanche tutti i bambini. Non mandavano le loro donne al kolchoz. Ed essi stessi non si curvavano nei campi dei kolchoz. Più di tutto cercavano di diventare autisti: star dietro a un motore non è umiliante, nel continuo movimento dell'automobile trovavano la soddisfazione delle loro passioni da džigit [16], nelle possibilità degli autisti quella delle loro passioni ladresche. Fra l'altro quest'ultima passione la soddisfacevano anche immediatamente. Portarono nel pacifico, onesto, sonnacchioso Kazakistan un concetto: “hanno rubato”, “hanno ripulito”. Potevano trafugare bestiame, depredare una casa e talvolta anche semplicemente strappare qualcosa con la forza. Gli abitanti locali e quei deportati che così facilmente si sottomettevano ai capi, li valutavano quasi come della loro stessa natura. Rispettavano solo i rivoltosi”.
Non stupisce che questo rispetto per i rivoltosi sia esploso poi, 35 anni dopo l'“amorevole” concessione di tornare a casa, con due pesantissime guerre. In cui divennero comandanti quelli che erano nati in esilio e soldati i loro figli. E soffrirono tra gli altri i vecchi, che ricordavano la deportazione.
Io, persona di una famiglia in cui c'è a chi fare gli auguri il 23 febbraio per la festa dei militari di professione, non dimenticherò mai due vecchi caucasici piegati dall'età con un abisso assoluto di delusione negli occhi scoloriti. Un ceceno, che si era rifugiato in un freddo vagone cuccetta in mezzo a un campo innevato, in un treno dato come abitazione ai profughi della Groznyj distrutta. Come un telescopio si era tutto rannicchiato e si copriva la testa con le mani, quando sul pavimento del vagone spostavano uno sgabello – gli sembrava che di nuovo tuonasse una cannonata. E un inguscio, che aveva combattuto con i tedeschi nella Grande Guerra Patriottica [17] ed era stato ferito così gravemente presso Novorossijsk [18] che avevano comunicato alla sua famiglia che non sarebbe sopravvissuto. Quando tornò a casa dal fronte risultò che la sua famiglia, tutto il villaggio e tutto il popolo erano stati deportati in Kazakistan. E nel 1992 la sua famiglia si trovò nel pieno del conflitto osseto-inguscio nel distretto Prigorodnyj [19], il quale (conflitto) di per se è stata eredità diretta della deportazione degli ingusci. 15 anni dopo il conflitto nel distretto Prigorodnyj sedeva presso la sua roulotte da profugo e con gli occhi mezzi accecati guardava il suo vecchio giardino, che si trovava a 500 metri di distanza. Ma dall'altra parte della frontiera amministrativa impossibile da attraversare per lui tra due regioni russe – l'Inguscezia e l'Ossezia del Nord.
Alcuni storici ossequenti della “civiltà sovietica” ricordano che le deportazioni staliniane, in primo luogo, non furono un “esperimento” unico: il governo zarista negli anni 1860-1870 inizialmente esiliò in pianura i montanari del Caucaso settentrionale, proponendo ai dissenzienti di andare nella confinante Turchia, e poi deportò gli inaffidabili dei distretti presso il fronte in una guerra imperialistica. E in secondo luogo, le deportazioni erano effettivamente ritenute “deportazioni di vendetta”. Il cavallo di razza Akhal-Teke [20], che sarebbe stato donato a Hitler dai ceceni, è probabilmente un mito, ma pochi ricordano che agli inizi degli anni '40, fra l'altro nel momento in cui la Wehrmacht tedesca sferrava l'attacco al Caucaso settentrionale, sui monti della Cecenia divampavano insurrezioni antisovietiche, per schiacciare le quali toccò, quasi come negli anni '90 e 2000, usare l'aviazione militare.
Ma anche in questo sta il problema, che nessuno in Russia vuol fare luce su come sono andate le cose in realtà. Dove sono motivi di incrudelimento reciproco. Lo si può superare e se sì, come? Il giorno del lutto e della memoria del 23 febbraio potrebbe diventare il giorno del riconoscimento e della riconciliazione. Ma non lo diventerà, finché preferiremo festeggiare mentre parte dei nostri concittadini si addolora. Finché ci sembrerà che il pentimento tedesco per il nazismo sia un goffo e complessato tributo a una stupida correttezza politica e non l'unico modo per la società di riabilitarsi, fra l'altro non nel senso giuridico, ma piuttosto nel senso medico della parola.
Ceceni e ingusci in Russia sono circa 1,5 milioni – qualcosa di più dell'1% della popolazione del paese. Qualcuno dirà che è troppo poco per farci attenzione, ma qualcuno, al contrario, che è troppo, in particolare dopo tutte le deportazioni, le guerre e in generale le spiacevolezze causate alla “maggioranza etnica”. Ma dove si può sputare sull'1%, di regola, è facile sputare anche sul restante 99%.
http://www.ingushetia.org/news/21593.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)
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