Un giorno nella camera di tortura
Un giorno al tribunale cittadino di Mosca per il caso
dei prigionieri di piazza Bolotana [1]
06.07.2013
L'alto edificio bianco del tribunale cittadino di Mosca, decorato da una cupola e da una bandiera, si innalza sul paesaggio cittadino circostante. E intorno c'è la consueta vita terra terra. Risuonano i tram. Proprio davanti al solenne ingresso del tribunale una pompa di benzina smercia attivamente carburante. Nelle baracche di mattoni a un piano, che spalancano le porte per il caldo, si trovano garage di meccanici e la tavola calda "Tandem" [2], un po' più avanti c'è la "Chincaglieria" [3], il cui emblema da lontano avevo preso per un teschio con le ossa. Ma si è rivelato un piatto con cucchiaio e forchetta incrociati. Le insegne chiamano dal gommista e dagli avvocati. E in tutto questo si indovina il modesto percorso di vita di una persona del quartiere di Preordinamento [4]: ha aggiustato la macchina, ci ha montato amorevolmente le gomme, poi è entrata in causa, ha preso un avvocato, si è goduta uno spiedino al "Tandem" e ha finito il suo percorso al cimitero Bordolese, la cui modesta cancellata è a un centinaio di metri dal tribunale…
L'udienza del tribunale per il caso dei prigionieri
di piazza Bolotana nell'aula 338 inizia con la protesta
dell'avvocato Gemellando, che dice che di nuovo non gli è riuscito
dialogare con il suo assistito. "In queste condizioni non si
può difendere!" L'avvocato Kljugvant si alza e con voce ben
impostata si rivolge al giudice raccontando come ha cercato di
trasmettere nella gabbia due documenti al suo assistito, ma ha
ricevuto un rifiuto dal capo delle guardie. Il difensore Semënov
ha la stessa storia: qui, nell'aula del tribunale, le guardie
si rifiutano di trasmettere documenti nella gabbia e inoltre le
stesse guardie stanno in piedi vicino e ascoltano attentamente tutto
ciò che si dicono l'avvocato e il suo assistito. Come possono
lavorare gli avvocati dove non c'è un dialogo libero e dove un
orecchio estraneo è attento a ogni conversazione della difesa? E'
un processo farsa.
Ed è anche un processo di tortura. All'improvviso,
mentre già scorrevano domande e risposte, nella gabbia si alza
Nikolaj Kavkazskij e cerca di raccontare dei "bicchieri",
in cui sono tenuti gli imputati fuori dall'aula del tribunale.
Riesce a dire solo che questi bicchieri misurano un metro per un
metro e mezzo, quando il giudice lo interrompe con atteggiamento di
noia stanco e un po' sprezzante: "Questo non ha a che fare con
l'istanza…" Il processo va avanti, ma allora si alza Jaroslav
Belousov: "Vostro onore! Il punto di raccolta misura un metro
per un metro e mezzo, là ci tengono a due a due, il pavimento e i
muri sono sporchi e ieri ci abbiamo passato 8 ora. Vostro onore,
speriamo nella Sua comprensione!» Attenzione e comprensione zero,
come se nessuno avesse detto niente. Passa ancora un'ora e adesso,
interrompendo il corso del processo, nella gabbia si alza Akimenkov,
ben rasato e con una vista scarsa: "Voglio denunciare
condizioni di detenzione da tortura. In attesa del processo ci
tengono in un punto di raccolta. E' molto sporco ed è buio là. Il
cellulare può stare qualche ora presso il SIZO [5]…
Capitiamo in cella alle 12 di notte… Sono già tre giorni senza
cibo caldo… Tenendo conto che ci attendono centinaia di udienze…
E' un piano logorante… Le nostre condizioni di permanenza sono
disumane".
Parla in una fessura della gabbia con voce sorda e
caparbia, nonostante che il giudice faccia un tentativo di
interrompere anche lui. Ma è impossibile interrompere una persona
che guarda dritto avanti a se con occhi di odio ed è piena di
decisione di parlare fino alla fine. Cosa può fare un giudice?
Mandare i corpi speciali nella gabbia perché davanti agli occhi del
pubblico pieghino Akimenkov in tre e gli tappino la bocca? Il
giudice si rassegna alla protesta ufficiale del detenuto, poi si
informa freddamente: "E' tutto?" – e come se niente
fosse porta avanti il processo.
…Sedendo su una panchina nella sala bianca senza finestre fortemente illuminata, osservo da venti metri di distanza il giudice Natalija Viktorovna Nikišina. Non è impassibile, in lei c'è una fredda gentilezza, un'improvvisa cordialità e l'ironia di una signora di classe, che parla agli avvocati come si parla ai bambini rumorosi in classe: "Rispettatevi a vicenda, ascoltatevi a vicenda!» Ma come può ella, un giudice, farsi indifferentemente entrare da un orecchio e uscire dall'altro i racconti degli imputati su condizioni da tortura? Come può in generale una persona fare entrare da un orecchio e uscire dall'altro quando un'altra persona le dice: "Mi aiuti! Mi stanno torturando! Davanti ai suoi occhi! Sotto il suo naso!» Come donna, anche se porta un mantello nero con il colletto bianco e siede sotto lo stemma della Russia, può essere freddamente indifferente a ciò che le dicono persone tormentate in gabbia? E due sue parole, dette dalla cattedra di giudice, sarebbero sufficienti per permettere agli avvocati di lavorare senza barriere e far cessare le torture sui prigionieri. Ma non ha queste parole.
Però ne ha altre: "La corte non vede
fondamento… La corte ha il diritto… A partire dall'articolo…
Della disposizione… Periodo di detenzione agli arresti fino al 24
novembre… Su qualsiasi base pretestuosa…» Tradotto in italiano
[6] significa: mi occupo
solo delle procedure in aula, ma cosa si fa con le persone là fuori
dall'aula non mi interessa assolutamente. Vi tormentano? Non potete
respirare? C'è la tortura con la privazione del sonno nel SIZO? Non
vi danno da mangiare? Siete in cella senza frigorifero e ventilatore
(così sta ora Artëm
Savelov)? In gabbia è impossibile trasmettere anche una
bottiglietta d'acqua? La mamma non può avvicinarsi al figlio? E io
che devo fare qui? Che hanno a che fare tutti questi vostri penosi
desideri umani con le sottigliezze processuali di questo grande caso
e con il compito chiaramente indicato di questa corte? Il giudice
serra le labbra e tiene bellamente nella mano destra come una
piccola frusta una lunga penna dorata.
…Dietro un grande tavolo davanti alla gabbia con i prigionieri di piazza Bolotnaja, spostando lentamente i loro corpi pieni su morbide sedie verdi, siedono due donne-procuratori. Per interi giorni guardano attraverso il vetro della gabbia dieci persone tormentate, semi-inferme per la lunga reclusione, la mancanza di aria, di sonno e di cibo. Tutta l'attività al processo di queste due donne – rappresentanti dello stato! – sta nel restringere ai detenuti le possibilità di difesa e di conseguenza incarcerarli. Alla situazione di questi infelici, destinati a tendere l'orecchio per sentire di là dal vetro di cosa li accusano senza avere né un tavolo, né carta per gli appunti, che non osano andare in bagno, schiacciati e masticati dalla prigione come una qualche massa umana impersonale queste non fanno alcuna attenzione. Se ai rappresentanti dello stato sono indifferenti le torture e le sofferenze dei cittadini, perché c'è questo stato?
Alessandro II una volta ordinò di essere rinchiuso
per un'ora in una cella perché voleva capire cosa sentissero le
persone che incarcerava per tutta la vita. Il grande principe
Nikolaj Nikolaevič
una volta andò alla casamatta della fortezza dei santi Pietro e
Paolo [7] per
parlare con Kropotkin [8].
Questi ingenui esempi del lontano passato russo sembrano un idillio
sullo sfondo del grigio, automatico e spietato sistema di giustizia
moderno e di queste due signore grigio-azzurre, una delle quali
ostenta in tribunale minigonna, gambe nude e tacchi alti, come non
capendo che un abito così provocante è inopportuno in un luogo di
pena. Potrebbe a loro, a queste rappresentanti dello stato moderno,
pagate tra l'altro anche con le mie tasse, venire in mente per una
migliore comprensione del processo di scambiare per un giorno il
posto con i prigionieri di piazza Bolotnaja e provare l'aria viziata
della gabbia? Non vorrebbero, seguendo gli insegnamenti dello zar,
sedere almeno un'ora non al loro tavolo spazioso, dietro cui si
possono mettere così comodamente le gambe e intrecciare così
ricercatamente le dita, ma trovarsi per 8 ore in un bicchiere
sporco, impregnato di sudore e di dolore e ricoperto di sporcizia
appiccicosa? Poiché le persone che non capiscono cosa fanno alle
altre persone non possono giudicare con giustizia, né accusare con
onore.
…Scusi, Vostro onore, ma ogni volta che Lei si rifiuta di ascoltare le condizioni di detenzione da tortura delle persone che giudica, sento dietro e di fianco, dalle panche vicine, spasmodici, involontari, silenziosi gemiti di insulto. E muti profondi sospiri. Sono i familiari dei prigionieri, le loro madri e i loro padri, ma ci sono qui anche le sorelle delle madri, un nonno, le mogli e le amiche. E quando sento questo alla quinta o sesta ora di udienza, dopo le innumerevoli domande poste e respinte, dopo l'indicazione degli articoli, le repliche degli avvocati, le istanze e altra routine del processo, all'improvviso comincio a vedere non la forma giuridica e la superficie del caso, ma la sua essenza ed essa consiste nel fatto che in questo processo si tormentano premeditatamente le persone.
Non c'è una pena del genere – sedere in gabbia
senz'acqua in un giorno afoso e arroventato, ma ci siedono. Non c'è
una pena del genere – sedere a due a due in una stretta cassa
sporca, ma ci siedono. E nessuno li ha ancora condannati ad alcuna
pena. E non si può, non riesci a scacciare questo dicendoti che ti
occupa di alta giurisprudenza e che tutte queste cose sporche e
tormentose non hanno niente a che fare con la verità della legge.
Ho chiesto a un avvocato perché il pubblico
ministero si comporta con pignoleria, respingendo tutte le istanze
dei prigionieri, tra cui anche quelle che sono legali (per esempio,
introdurre nel caso un nuovo avvocato). "Per principio. Per
fare schifezze!" – subito mi ha spiegato questa persona
esperta e ha aggiunto: "Mi creda, in questo caso è tutto molto
semplice!" Capisco che è semplice. Ma non si ha voglia di
questa volgare semplicità, ce ne siamo già sorbiti una ciotola
piena e si ha voglia di provare rispetto per un tribunale e per un
giudice. Ma il giudice deve fare qualcosa per questo e nel passato
ci sono esempi per lei. Nella storia della giustizia russa ci fu un
caso in cui il rappresentante del tribunale circondariale di Kiev
Nikolaj Grabor si rifiutò di partecipare a un processo che riteneva
disonorevole e per questo processo politico, che il potere chiamava
ipocritamente penale, toccò portare un procuratore da un'altra
città. Questo fu nel 1911 ed era il caso Bejlis [9].
...Il sottufficiale di polizia, agente della 1.a compagnie del 2° plotone dell'OMON [10] di Mosca Andrej Archipov, va al banco vicino al tavolo del giudice. Ha una figura massiccia, il cranio rasato, una maglietta della Adidas non fresca dopo un intera giornata a sedere in tribunale, scarpe da ginnastica consumate e la cinghia nera della borsa gli sottolinea diagonalmente il petto gonfio. Il 6 maggio 2012 era inizialmente nel cordone che si muoveva dal ponte Bol'šoj Kamennyj [11] a piazza Bolotnaja, poi fu designato per il gruppo di cattura, con un collega riuscì a catturare un dimostrante, ma poi prese un pezzo di asfalto nel mento e andò alla macchina del "Pronto Soccorso", dove gli unsero la ferita con tintura di anilina. Alla sera in ospedale gli cucirono la ferita. Adesso non ha tracce di punti. Egli stesso definisce il danno subito "leggero". Non c'è alcun documento clinico che confermi il suo racconto.
Stando dietro al banco, il ragazzo pena e soffre. In
aula si sforza di non guardare gli imputati, guarda in basso.
Talvolta resta a lungo con gli occhi vuoti, non è in grado di
rispondere a una domanda. A molte domande risponde: "Non
ricordo". Poi viene il momento dell'avvocato Makarov e questa
grossa persona con una camicia estiva azzurra e occhiali severi
tiene in moto l'agente dell'OMON per 45 lunghi minuti. Lo pressa con
domande su tutto: sul piano di servizio, sui mezzi di difesa di un
agente dell'OMON, sul movimento dell'OMON in piazza il giorno 6
maggio 2012, sull'arrestato. "Come l'avete arrestato?" –
chiede l'avvocato. "Ci siamo avvicinati. Ci siamo presentati.
Gli abbiamo chiesto di venire con noi". L'aula semi-svenuta
rimbomba di risate. Quel giorno in piazza ci fu un pestaggio e gli
arrestati furono immobilizzati, tirati via, trascinati, picchiati.
"Siete andati a disperdere la gente o a
difenderla? Difenderla? Da chi?" – chiede il caparbio e molto
fine avvocato Makarov.
"Da se stessa", – risponde l'agente
dell'OMON Archipov, abbassando gli occhi. In aula si ride di nuovo.
Anche sul suo ampio volto c'è una parvenza di sorriso.
E' stato dichiarato parte lesa dall'accusa, ma
presto si scopre che è del tutto incomprensibile perché sia nel
caso. L'agente dell'OMON Andrej Archipov non vide chi gli tirò il
pezzo di asfalto. In piazza Bolotnaja non vide neanche nessuno dei
prigionieri di piazza Bolotnaja. E se si possono trattare in qualche
modo le intonazioni delle sue poco complesse risposte e le sue
pause, quando tace in oscura perplessità, scegliendo le parole per
rispondere a una contorta domanda di un avvocato, allora bisogna
supporre che provi qualcosa come una scomodità davanti a chi siede
in gabbia e non sia contento di essere in tribunale e non sia
affatto contento che in tutto questo si sia cacciato per una piccola
ferita unta di tintura di anilina. Si definisce "vittima dei
fatti del 6 maggio, ma non per colpa di queste persone".
"Si sente vittima di questo gruppo di persone?"
– "No".
"Ha rimostranze nei confronti di questa persona?" (L'avvocato, indicando Stepan Zimin.) – "No, non ne ho".
Non ha rimostranza nei confronti di alcuna delle 12
persone imputate nell'aula del tribunale. Non sa chi gli lanciò il
pezzo di asfalto, che scivolò lungo la visiera del casco Jet e lo
colpì al mento. Quelli che siedono in gabbia sono accusati di
avergli causato un danno, ma questi non lo riconosce. Alla fine si
alza l'avvocato Arganovskij e chiede con sincero stupore: "Ma
come ha fatto in generale questa persona a diventare parte lesa in
questo caso?"
"Revocare la domanda!"
…Ma perché all'improvviso "revocare la domanda", Vostro onore? Non c'è alcun fondamento per revocare questa domanda degli avvocati e altre simili a questa. Se le revocano, sorge l'impressione: il giudice non vuole sapere la verità. Ma è molto importante sapere se qualcuno ha designato l'agente dell'OMON Archipov parte lesa, se qualcuno gli ha ordinato di diventarlo. Saša Duchanina si è avvicinata all'essenza del caso quando ha chiesto: "Ha scritto Lei la denuncia come parte lesa?" – "Non ricordo!"
Non sono un reporter giudiziario e siedo in un'aula
di tribunale per la prima volta nella vita. Non ho mai visto con i
miei occhi il lavoro degli avvocati. Qui, al tribunale cittadino di
Mosca, ho visto come sotto la fitta grandine di domande avvocatesche
si schiaccia e si scioglie la cosiddetta parte lesa e come dopo
un'ora di lavoro degli avvocati in qualche modo naturalmente e da
sola all'improvviso in aula sorge la verità. Gli avvocati, che
siedono dietro due file di tavoli nell'aula bianca senza finestre,
hanno dimostrato splendidamente e tra l'altro in modo semplice e
preciso che l'agente dell'OMON Archipov non è parte lesa in questo
caso e allora, nella mia ingenuità, all'improvviso mi sono riempito
di gioia euforica ed ero certo che l'istanza comune di avvocati e
prigionieri sul suo spostamento da parte lesa a testimone non si
potesse non accogliere.
Adesso la parola era al pubblico ministero. Si è
alzata il grosso procuratore-donna e ha detto di no, che era
contraria perché non si poteva e perciò non c'era bisogno. Questa
non è una diretta citazione del suo discorso, ma non è molto più
breve del discorso stesso. A tutto lo splendore del lavoro degli
avvocati, a tutto il caparbio e accurato lavoro di 45 minuti
dell'avvocato Makarov, a tutta la forza intellettuale di quasi due
decine di teste di avvocati sono state contrapposte alcune parole
fiacche, che ha pronunciato verso il giudice un procuratore in
minigonna. E si è seduta, facendo posto all'intervento del giudice.
Non era stabilito che intervenisse più nessuno in questo momento,
solo il duetto conclusivo di pubblico ministero e giudice… ma
terribile, scurito dalla prigione, con uno scuro cranio nudo
Vladimir Akimenkov all'improvviso si è alzato di nuovo e seccamente
e nervosamente ha gridato ai procuratori attraverso l'aula: "Non
vi vergognate a venir fuori con una base del genere?» E quanta
furia non trattenuta e disprezzo c'erano già nel suo grido.
Di solito il giudice prende tempo per riflettere su
un'istanza. Ma qui, per risolvere una questione che che aveva un
enorme significato per il corso del processo, non si è messa a
pensare. Questa questione si sarebbe potuta risolvere in modo che
tutto il processo iniziasse gradualmente a tornare dai binari curvi
della menzogna alla via della verità. Ma il pubblico ministero con
l'importante espressione di un volto che non ha mai compassione per
nessuno non ha fatto in tempo a sedersi che il giudice Nikišina
con una qualche gioiosa e per qualche motivo allegra rapidità ha
deliberato: respingere l'istanza di avvocati e imputati per
lo spostamento dell'agente dell'OMON Archipov dalla parte lesa ai
testimoni.
Aleksej Polikovskij, "Novaja gazeta", http://www.novayagazeta.ru/politics/58944.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)
[1]
"Del Pantano" (che c'era prima che la costruissero), luogo
delle più importanti manifestazioni dell'opposizione e della
repressione governativa.
[2]
"Tandoor".
[3]
"Luogo dei chinkali",
tortelli georgiani.
[4]
Nome colloquiale della piazza Preobraženskaja (della
Trasfigurazione) nella zona centro-orientale di Mosca.
[5]
Sledstvennyj IZOljator (Carcere di Custodia Cautelare).
[6]
"In russo" (ovviamente) nell'originale.
[7]
Fortezza di San Pietroburgo.
[8]
Pëtr Alekseevič Kropotkin, anarchico russo.
[9]
Mendel' Tev'evič Bejlis, l'ultimo ebreo accusato (poi assolto) di
omicidio rituale.
[10]
Otdel Milicii Osobogo Naznačenija (Sezione di Polizia con
Compiti Speciali), sorta di Celere russa nota per la sua durezza.
[11]
"Grande di Pietra", ponte del centro di Mosca.
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