31 maggio 2007

Questioni spinose (segue)

Viaggio nella storia della carità, fino alla sua secolarizzazione/2
di Marco Burini da "Il Foglio" 24 maggio 2007

Nella storia della chiesa, che si sovrappone ma non si esaurisce nella
storia dell'occidente, sono molteplici i modi di declinare il nesso
povertà/carità.
Durante il lungo tramonto dell'impero romano la comunità dei credenti
individua nell'elemosina, già punto di forza della tradizione ebraica,
la forma caritativa per eccellenza. Il trattato di Cipriano "De opere
et de elemosina" getta le basi teologiche di una prassi che si
consoliderà nei secoli successivi: non si tratta tanto di disquisire
sulla liceità delle ricchezze, quanto sul modo di impiegarle. Alcuni,
come Tertulliano e Origene, di fronte al moltiplicarsi di impostori non
esitano a raccomandare prudenza nella distribuzione dei beni. Altra
forma tradizionale di carità è l'incontro domenicale, in cui alla
liturgia si affianca l'elargizione ai poveri. Non due momenti distinti,
in realtà, ma un unico appuntamento, L 'agape", che recupera la
tradizione ebraica del banchetto messianico e la innesta sulla memoria
del mistero pasquale. Gradualmente, la crescita delle città e
l'inurbamento del cristianesimo spinge la chiesa a strutturare in
maniera sempre più articolata il servizio di carità: sorgono ospedali,
orfanatrofi, ospizi per i pellegrini; vengono istituite le
"matricole", uffici di assistenza che si prendono a carico poveri
validi ma senza lavoro e donne senza risorse, soprattutto vedove. Da
Gregorio Magno (590-604) in poi l'esercizio della carità diventa il
collante di un tessuto sociale che si va sfaldando sotto i colpi delle
invasioni barbariche. Le riflessioni di questo Papa sulla ricchezza e
la destinazione universale dei beni sono la sintesi della teologia
patristica sul tema e saranno decisive nella tradizione cristiana
successiva.

Scelte di povertà: monaci e mendicanti
Intanto, alcuni credenti fuggono da città sempre più affollate e
decadenti e si ritirano nel deserto, come fece Gesù prima di iniziare
la predicazione pubblica. Da Antonio a Benedetto, passando per
Martino, Cesario e Cassiano, il monaco si impone come il modello del
cristiano autentico (è il martire di un'epoca senza persecuzioni), che
sceglie per se stesso una vita povera. Moltissimi laici di ogni ceto
sociale vengono contagiati dal rigore di questa scelta esistenziale,
lasciano tutto e seguono le orme dei pionieri. Ben presto il deserto
si popola di uomini e donne desiderosi di praticare la perfezione
evangelica ("Vita vere apostolica") fuori dalle strutture
ecclesiastiche. Ancora una volta si innesca la dialettica
carisma/istituzione, ma la frattura è scongiurata da uomini avveduti
come Pacomio e Basilio che in oriente dettano le regole delle prime
comunità monastiche: pratica della povertà in vista della comu¬nione
dei beni e lavoro manuale per il sostentamento della comunità e dei
poveri. In occidente l'esperienza monastica si stabilizza grazie a
Benedetto e alla sua rego la. Il monastero diventa così un centro di
assistenza per le popolazioni delle campagna, divenuta nel frattempo
il perno della vita economica. "Nel primo medioevo, almeno fino al XII
secolo, i poveri erano essenzialmente i pellegrini da ospitare, i
contadini da sfamare e anche da difendere, orfani e vedove, qualche
sbandato, ma tutti in ambito piuttosto ristretto" (L. Mezzadri). Con la
svolta del XII-XIII secolo, il povero perde i suoi connotati domestici.
Di fronte alle masse di indigenti che minacciano l'equilibrio delle
città, la risposta non viene dal clero, troppo compromesso col potere,
ma dai numerosi movimenti pauperistico-evangelici che fanno della
povertà il loro ideale di vita. Valdo e Francesco, che vengono dalla
nuova classe dei mercanti, vedono nella rinuncia ai beni la condizione
per un'autentica sequela di Cristo ("Christum nudum nudus sequi"); se
il primo giunge a negare il carattere apostolico della chiesa
ufficiale, che ostacola questo ideale, il secondo continua la sua
riforma restando nell'ortodossia. Ma dopo la fase idilliaca dei
fondatori degli ordini mendicanti (francescani e domenicani, a cui
vanno aggiunti elementi riformatori come i canonici regolari, gli
ordini ospedalieri, le confraternite) si apre un dibattito lacerante
sui limiti e le forme della scelta di povertà che spacca i seguaci di
Francesco coinvolgendo il papato, mentre il punto di vista dei
domenicani è espresso da Tommaso d'Aquino, secondo il quale la povertà
non è indispensabile allo stato di perfezione ma riguarda solo quei
religiosi che si obbligano a essa con un voto esplicito.

Sospetto e filantropia
Sul finire del medioevo, la povertà diventa qualcosa di sospetto:
l'onda d'urto di una mendicità sempre più diffusa e insistente, dovuta
a ripetute carestie ed epidemie, apre la strada alla distinzione tra
veri e falsi poveri. Dalla metà del Trecento in poi rivolte, disordini
e furti in numero crescente inducono gli stati a misure poliziesche.
La chiesa si adegua: "La paura delle sommosse, l'ascesa della
borghesia, la valorizzazione della ricchezza come via alle virtù
squalificarono il culto di Francesco a Madonna Povertà" (B. Geremelt).
L'inizio dell'età moderna coincide quindi con una svolta radicale: la
secolarizzazione della carità, che d'ora in poi si chiamerà
assistenza. Nell'ottica umanistico-rinascimentale il povero fa paura:
è una presenza inquietante, una minaccia all'ordine costitutito,
protagonista com'è di disordini e rivolte. I maggiori intellettuali
dell'epoca attaccano il pauperismo e criticano l'uso indiscriminato dei
concetto di "poveri di Cristo". Tommaso Moro ed Erasmo scrivono opere
in tal senso e sulla loro scia Juan Luis Vivés pubblica "De subventione
pauperum" (1526), il manifesto della nuova politica sociale di
controllo: anzitutto divieto della mendicità, quindi centralizzazione
e ospedalizzazione dell'assistenza , fino alla reclusione per gli
incorreggibili che non vogliono lavorare. La chiesa da una parte
rilancia le forme tradizionali di carità, dall'altra da spazio, specie
nello stato pontificio, alle nuove esigenze organizzative. Anche la
riforma protestante sostiene la nuova politica sociale. Per Luterò è
necessario "estirpare ogni mendicità da tutto il mondo cristiano" e
aiutare i poveri meritevoli escludendo vagabondi e stranieri
dall'assistenza organizzata - che comunque non deve superare una certa
soglia ("Basta aiutare i poveri in modo che non muoiano di fame e
freddo"). Sul fronte cattolico, autori come Bellarmino ribadiscono la
legittimità dell'ordine sociale ("Dio vuole che nel mondo ci siano
ricchi e poveri") e insistono sul dovere dell'elemosina. Nel
Settecento, poi, il processo di secolarizzazione dell'assistenza si
perfeziona secondo i dettami dell'illuminismo: la filantropia prende il
posto della carità e in nome di un'umanità "più grande del
cristianesimo" si inneggia al solidarismo, nuova religione sociale (P.
Leroux, L. Bourgeois). La chiesa si sente attaccata da entrambi i lati
(liberalismo e socialismo), si mette sulla difensiva e ripropone il
modello caritativo tradizionale, salvo prendere lentamente coscienza
della svolta epocale in atto e attrezzarsi di conseguenza.

Questione operaia e cattolicesimo sociale
Con l'avvento dell'industrializzazione la questione operaia riscrive
i termini del problema: non si parla più di poveri ma di proletari. Le
spaventose condizioni di vita nei luoghi di lavoro, in cui vengono
sfruttati in maniera massiccia anche donne e bambini, suscitano nel
corpo ecclesiale una febbre caritativa senza precedenti. Nascono
numerosissimi istituti e congregazioni, sia maschili che femminili,
animati da personaggi eccezionali come Giovanni Bosco, Luigi Orione,
Giuseppe Cottolengo, Federico Ozanam. Il corpo ecclesiale è agitato
da una vera e propria febbre caritativa che si manifesta a tutti i
livelli. Donne e uomini, chierici e laici si prodigano per venire
incontro alle situazioni di miseria sfruttamento dei lavoratori. Dal
punto di vista teorico, la neonata Civiltà Cattolica con padre
Taparelli critica in egual misura socialismo e liberalismo proponendo
il ritorno allo schema corporativo medioevale. L'esperimento di
Kolping in Germania, con l'istituzione di associazioni artigiane di
mutuo soccorso, va in questa direzione. Ma è il vescovo di Magonza,
Ketteler, a discernere con più acutezza lo spirito del tempo. La sua
opera "La questione operaia e il cristianesimo" (1864) getta le basi
del cattolicesimo sociale: l'associazionismo operaio, sia pur dentro
uno schema corporativo, ha obiettivi inediti: crescita dei salari
corrispondente alle ore lavorate, aumento dei giorni di riposo,
divieto di impiegare ragazzi e donne incinte. "A partire dal 1869,
Ketteler propone anche la partecipazione degli operai ai profitti della
fabbrica e si mostra disponibile all'intervento dello stato, malgrado
la sua ripulsa verso il totalitarismo burocratico" (Paglia). Il
magistero comincia così a elaborare risposte adeguate , ai problemi
del tempo. E se Pio IX con l'enciclica "Nostris e nobiscum" resta
ancora nel solco della tradizione, ribadendo 16 status quo (i poveri
appartengono "all'ordine naturale e immutabile delle cose") e
rilanciando lo strumento dell'elemosina, il concilio Vaticano I
recepisce gli impulsi del cattolicesimo sociale che fiorisce in
Germania, Francia, Italia. Non a caso la prima redazione del testo
preparatorio sulla questione sociale ("II dovere di alleviare la
miseria dei poveri e degli operai") è affidata a uno stretto
collaboratore di Ketteler, il canonico Moufang. L'incipit del
documento che come tutti gli' altri non vedrà la luce per
l'interruzione del concilio, il 20 settèmbre 1870, dovuta alla guerra
franco-tedesca e all'occupazione di Roma - è emblemàtico: "Noi non
possiamo guardare in silenzio".Chiesa e poveri: eredi di un'eresia

Consapevole dell'eredità ricevuta ( "I poveri li avrete sempre tra voi" vangelo di
Giovanni 12,8), nel corso della storia la chiesa ha sempre
manifestato una predilezione per gli ultimi. E quando l'esercizio della
carità si e lasciato irretire da calcoli e paure, è sempre comparso
sulla scena qualcuno (Antonio, Francesco, Charles de Foucauld) a
incarnare l'ideale evangelico riportando alla giusta tensione il
rapporto carisma/istituzione. A costo di strappi dolorosi, di fughe in
avanti e narcisismi, di eresie comunque da non liquidare in fretta
(l'eresia è l'ombra del dogma, il suo doppio inseparabile). Tuttora la
povertà è un'eresia. Alla lettera, una scelta (sovversiva): una chiesa
povera, dunque aperta a tutti, per la quale non c'è carità senza
giustizia. Ma un'eresia anche in senso lato, cioè un'assurdità da
combattere: da qui il multiforme esercizio della carità e le
riflessioni che lo accompagnano, sistematizzate nella cosiddetta
dottrina sociale della chiesa.
(segue articolo "Aiutare i poveri o imitarli?)

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