Viaggio nella storia della carità, fino alla sua secolarizzazione/2
di Marco Burini da "Il Foglio" 24 maggio 2007
storia dell'occidente, sono molteplici i modi di declinare il nesso 
povertà/carità. 
Durante il lungo tramonto dell'impero romano la comunità dei credenti 
individua nell'elemosina, già punto di forza della tradizione ebraica, 
la forma caritativa per eccellenza. Il trattato di Cipriano "De opere 
et de elemosina" getta le basi teologiche di una prassi che si 
consoliderà nei secoli successivi: non si tratta tanto di disquisire 
sulla liceità delle ricchezze, quanto sul modo di impiegarle. Alcuni, 
come Tertulliano e Origene, di fronte al moltiplicarsi di impostori non 
esitano a raccomandare prudenza nella distribuzione dei beni. Altra 
forma tradizionale di carità è l'incontro domenicale, in cui alla 
liturgia si affianca l'elargizione ai poveri. Non due momenti distinti, 
in realtà, ma un unico appuntamento, L 'agape", che recupera la 
tradizione ebraica del banchetto messianico e la innesta sulla memoria 
del mistero pasquale. Gradualmente, la crescita delle città e 
l'inurbamento del cristianesimo spinge la chiesa a strutturare in 
maniera sempre più articolata il servizio di carità: sorgono ospedali, 
orfanatrofi, ospizi per i pellegrini; vengono istituite le 
"matricole", uffici di assistenza che si prendono a carico poveri 
validi ma senza lavoro e donne senza risorse, soprattutto vedove. Da 
Gregorio Magno (590-604) in poi l'esercizio della carità diventa il 
collante di un tessuto sociale che si va sfaldando sotto i colpi delle 
invasioni barbariche. Le riflessioni di questo Papa sulla ricchezza e 
la destinazione universale dei beni sono la sintesi della teologia 
patristica sul tema e saranno decisive nella tradizione cristiana 
successiva.
Scelte di povertà: monaci e mendicanti
Intanto, alcuni credenti fuggono da città sempre più affollate e 
decadenti e si ritirano nel deserto, come fece Gesù prima di iniziare 
la predicazione pubblica. Da Antonio a Benedetto, passando per 
Martino, Cesario e Cassiano, il monaco si impone come il modello del 
cristiano autentico (è il martire di un'epoca senza persecuzioni), che 
sceglie per se stesso una vita povera. Moltissimi laici di ogni ceto 
sociale vengono contagiati dal rigore di questa scelta esistenziale, 
lasciano tutto e seguono le orme dei pionieri. Ben presto il deserto 
si popola di uomini e donne desiderosi di praticare la perfezione 
evangelica ("Vita vere apostolica") fuori dalle strutture 
ecclesiastiche. Ancora una volta si innesca la dialettica 
carisma/istituzione, ma la frattura è scongiurata da uomini avveduti 
come Pacomio e Basilio che in oriente dettano le regole delle prime 
comunità monastiche: pratica della povertà in vista della comu¬nione 
dei beni e lavoro manuale per il sostentamento della comunità e dei 
poveri. In occidente l'esperienza monastica si stabilizza grazie a 
Benedetto e alla sua rego la. Il monastero diventa così un centro di 
assistenza per le popolazioni delle campagna, divenuta nel frattempo 
il perno della vita economica. "Nel primo medioevo, almeno fino al XII 
secolo, i poveri erano essenzialmente i pellegrini da ospitare, i 
contadini da sfamare e anche da difendere, orfani e vedove, qualche 
sbandato, ma tutti in ambito piuttosto ristretto" (L. Mezzadri). Con la 
svolta del XII-XIII secolo, il povero perde i suoi connotati domestici. 
Di fronte alle masse di indigenti che minacciano l'equilibrio delle 
città, la risposta non viene dal clero, troppo compromesso col potere, 
ma dai numerosi movimenti pauperistico-evangelici che fanno della 
povertà il loro ideale di vita. Valdo e Francesco, che vengono dalla 
nuova classe dei mercanti, vedono nella rinuncia ai beni la condizione 
per un'autentica sequela di Cristo ("Christum nudum nudus sequi"); se 
il primo giunge a negare il carattere apostolico della chiesa 
ufficiale, che ostacola questo ideale, il secondo continua la sua 
riforma restando nell'ortodossia. Ma dopo la fase idilliaca dei 
fondatori degli ordini mendicanti (francescani e domenicani, a cui 
vanno aggiunti elementi riformatori come i canonici regolari, gli 
ordini ospedalieri, le confraternite) si apre un dibattito lacerante 
sui limiti e le forme della scelta di povertà che spacca i seguaci di 
Francesco coinvolgendo il papato, mentre il punto di vista dei 
domenicani è espresso da Tommaso d'Aquino, secondo il quale la povertà 
non è indispensabile allo stato di perfezione ma riguarda solo quei 
religiosi che si obbligano a essa con un voto esplicito.
Sospetto e filantropia
Sul finire del medioevo, la povertà diventa qualcosa di sospetto: 
l'onda d'urto di una mendicità sempre più diffusa e insistente, dovuta 
a ripetute carestie ed epidemie, apre la strada alla distinzione tra 
veri e falsi poveri. Dalla metà del Trecento in poi rivolte, disordini 
e furti in numero crescente inducono gli stati a misure poliziesche. 
La chiesa si adegua: "La paura delle sommosse, l'ascesa della 
borghesia, la valorizzazione della ricchezza come via alle virtù 
squalificarono il culto di Francesco a Madonna Povertà" (B. Geremelt). 
L'inizio dell'età moderna coincide quindi con una svolta radicale: la 
secolarizzazione della carità, che d'ora in poi si chiamerà 
assistenza. Nell'ottica umanistico-rinascimentale il povero fa paura: 
è una presenza inquietante, una minaccia all'ordine costitutito, 
protagonista com'è di disordini e rivolte. I maggiori intellettuali 
dell'epoca attaccano il pauperismo e criticano l'uso indiscriminato dei 
concetto di "poveri di Cristo". Tommaso Moro ed Erasmo scrivono opere 
in tal senso e sulla loro scia Juan Luis Vivés pubblica "De subventione 
pauperum" (1526), il manifesto della nuova politica sociale di 
controllo: anzitutto divieto della mendicità, quindi centralizzazione 
e ospedalizzazione dell'assistenza , fino alla reclusione per gli 
incorreggibili che non vogliono lavorare. La chiesa da una parte 
rilancia le forme tradizionali di carità, dall'altra da spazio, specie 
nello stato pontificio, alle nuove esigenze organizzative. Anche la 
riforma protestante sostiene la nuova politica sociale. Per Luterò è 
necessario "estirpare ogni mendicità da tutto il mondo cristiano" e 
aiutare i poveri meritevoli escludendo vagabondi e stranieri 
dall'assistenza organizzata - che comunque non deve superare una certa 
soglia ("Basta aiutare i poveri in modo che non muoiano di fame e 
freddo"). Sul fronte cattolico, autori come Bellarmino ribadiscono la 
legittimità dell'ordine sociale ("Dio vuole che nel mondo ci siano 
ricchi e poveri") e insistono sul dovere dell'elemosina. Nel 
Settecento, poi, il processo di secolarizzazione dell'assistenza si 
perfeziona secondo i dettami dell'illuminismo: la filantropia prende il 
posto della carità e in nome di un'umanità "più grande del 
cristianesimo" si inneggia al solidarismo, nuova religione sociale (P. 
Leroux, L. Bourgeois). La chiesa si sente attaccata da entrambi i lati 
(liberalismo e socialismo), si mette sulla difensiva e ripropone il 
modello caritativo tradizionale, salvo prendere lentamente coscienza 
della svolta epocale in atto e attrezzarsi di conseguenza.
Questione operaia e cattolicesimo sociale
Con l'avvento dell'industrializzazione la questione operaia riscrive 
i termini del problema: non si parla più di poveri ma di proletari. Le 
spaventose condizioni di vita nei luoghi di lavoro, in cui vengono 
sfruttati in maniera massiccia anche donne e bambini, suscitano nel 
corpo ecclesiale una febbre caritativa senza precedenti. Nascono 
numerosissimi istituti e congregazioni, sia maschili che femminili, 
animati da personaggi eccezionali come Giovanni Bosco, Luigi Orione, 
Giuseppe Cottolengo, Federico Ozanam. Il corpo ecclesiale è agitato 
da una vera e propria febbre caritativa che si manifesta a tutti i 
livelli. Donne e uomini, chierici e laici si prodigano per venire 
incontro alle situazioni di miseria sfruttamento dei lavoratori. Dal 
punto di vista teorico, la neonata Civiltà Cattolica con padre 
Taparelli critica in egual misura socialismo e liberalismo proponendo 
il ritorno allo schema corporativo medioevale. L'esperimento di 
Kolping in Germania, con l'istituzione di associazioni artigiane di 
mutuo soccorso, va in questa direzione. Ma è il vescovo di Magonza, 
Ketteler, a discernere con più acutezza lo spirito del tempo. La sua 
opera "La questione operaia e il cristianesimo" (1864) getta le basi 
del cattolicesimo sociale: l'associazionismo operaio, sia pur dentro 
uno schema corporativo, ha obiettivi inediti: crescita dei salari 
corrispondente alle ore lavorate, aumento dei giorni di riposo, 
divieto di impiegare ragazzi e donne incinte. "A partire dal 1869, 
Ketteler propone anche la partecipazione degli operai ai profitti della 
fabbrica e si mostra disponibile all'intervento dello stato, malgrado 
la sua ripulsa verso il totalitarismo burocratico" (Paglia). Il 
magistero comincia così a elaborare risposte adeguate , ai problemi 
del tempo. E se Pio IX con l'enciclica "Nostris e nobiscum" resta 
ancora nel solco della tradizione, ribadendo 16 status quo (i poveri 
appartengono "all'ordine naturale e immutabile delle cose") e 
rilanciando lo strumento dell'elemosina, il concilio Vaticano I 
recepisce gli impulsi del cattolicesimo sociale che fiorisce in 
Germania, Francia, Italia. Non a caso la prima redazione del testo 
preparatorio sulla questione sociale ("II dovere di alleviare la 
miseria dei poveri e degli operai") è affidata a uno stretto 
collaboratore di Ketteler, il canonico Moufang. L'incipit del 
documento che come tutti gli' altri non vedrà la luce per 
l'interruzione del concilio, il 20 settèmbre 1870, dovuta alla guerra 
franco-tedesca e all'occupazione di Roma - è emblemàtico: "Noi non 
possiamo guardare in silenzio".Chiesa e poveri: eredi di un'eresia 
Consapevole dell'eredità ricevuta ( "I poveri li avrete sempre tra voi" vangelo di
Giovanni 12,8), nel corso della storia la chiesa ha sempre
manifestato una predilezione per gli ultimi. E quando l'esercizio della
carità si e lasciato irretire da calcoli e paure, è sempre comparso
sulla scena qualcuno (Antonio, Francesco, Charles de Foucauld) a
incarnare l'ideale evangelico riportando alla giusta tensione il
rapporto carisma/istituzione. A costo di strappi dolorosi, di fughe in
avanti e narcisismi, di eresie comunque da non liquidare in fretta
(l'eresia è l'ombra del dogma, il suo doppio inseparabile). Tuttora la
povertà è un'eresia. Alla lettera, una scelta (sovversiva): una chiesa
povera, dunque aperta a tutti, per la quale non c'è carità senza
giustizia. Ma un'eresia anche in senso lato, cioè un'assurdità da
combattere: da qui il multiforme esercizio della carità e le
riflessioni che lo accompagnano, sistematizzate nella cosiddetta
dottrina sociale della chiesa.
(segue articolo "Aiutare i poveri o imitarli?)
 
 

 
     
 
  
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