28 novembre 2008

Da Pasolini a Saviano

Io so

di Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Corriere della Sera, 14 novembre 1974



Io so e ho le prove

di Roberto Saviano

…perché nonostante tutto, la verità esiste.
Victor Serge

Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E La verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano. Nessuno si pente. Io so e ho le prove. Io so dove le pagine dei manuali d’economia si dileguano mutando i loro frattali in materia, cose, ferro, tempo e contratti. Io so. E lo sanno le mie prove. Le prove non sono nascoste in nessuna pen-drive celata in buche sotto terra. Non ho video compromettenti in garage nascosti in inaccessibili paesini di montagna. Né possiedo documenti ciclostilati dei servizi segreti. Le prove sono inconfutabili perché parziali, riprese con le iridi, raccontate con la parole e temprate con le emozioni rimbalzate su ferri e legni. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola che ancora può valere quando sussurra: “è falso” all’orecchio di ascolta le cantilene a rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, infondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità.

Cerco sempre di calmare quest’ansia che mi si innesca ogni volta che cammino, ogni volta che salgo scale, prendo ascensori, quando struscio le suole su zerbini e supero soglie. Non posso fermare un rimuginio d’anima perenne su come sono stati costruiti palazzi e case. E se poi ho qualcuno a portata di parola riesco con difficoltà a trattenermi dal raccontare come si tirano su piani e balconi sino al tetto. Non è un senso di colpa universale che mi pervade, né un riscatto morale verso chi è stato cassato dalla memoria del sentiero della storia. Piuttosto cerco di dismettere quel meccanismo brechtiano che invece ho connaturato, di pensare alle mani e ai piedi della storia. Insomma più alle ciotole perennemente vuote che portarono alla presa della Bastiglia piuttosto che ai proclami della Gironda e dei Giacobini. Non riesco a non pensarci. Ho sempre questo vizio. Come qualcuno che guardando Veermer pensasse a chi ha impastato i colori, tirato la tela coi legni, assemblato gli orecchini di perle, piuttosto che contemplare il ritratto. Una vera perversione. Non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale, e non mi distrae da come si mettono in torre le impalcature il vedere una verticale di finestre. Non riesco a far finta di nulla. Non riesco proprio a vedere solo il parato e penso alla malta e alla cazzuola. E persino ai calli che genera il manico di legno del frattazzo usato sino allo stiramento del polso per spianare l’intonaco. Sarà forse che chi nasce in certi meridiani ha rapporto con alcune sostanze in modo singolare, unico. Un rapporto che altrove non potrebbe che essere diverso. Non tutta la materia viene recepita allo stesso modo in ogni luogo. Non so, credo che in Qatar l’odore di petrolio e benzina rimandi a sensazioni e sapori che sanno di residenze immense, monocultura e lenti da sole e limousine anche se magari nel quotidiano il tanfo di benzina e petrolio avviene meno che a Madrid. Lo stesso odore acido del carbonfossile credo a Minsk rimandi a facce scure, fughe di gas, e città affumicate mentre in Belgio rimandi all’odore d’aglio degli italiani ed alla cipolla dei magrebini, i corpi che si inabissavano nelle miniere. Lo stesso accade col cemento per il l’Italia, per il mezzogiorno. Il cemento. Petrolio del sud. Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nato nel mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni. Appalti, gare d’appalto, cave, cemento, inerti, malta, mattoni, impalcature, operai. L’armamentario dell’imprenditore italiano è questo. L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero, (principato o feudo da valvassore) nel cemento non ha speranza alcuna. Bisogna immaginarsi la sua valigetta simile a quella che qualche anni fa produceva la MicroMachine. Una valigetta per bimbi, che si apriva e dalle pareti uscivano microbetoniere e nano-operai, scivoli e gru. Bisognerebbe pensare così la valigetta di chiunque si appresta a voler diventare imprenditore vincente e potente. E’ il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile, acquistarsi fiducia, assumere persone nel tempo adatto di un’elezione, distribuire salari, accaparrarsi finanziamenti, moltiplicare il proprio volto sulla fama dei palazzi che si edificano. Il talento del costruttore è quello del mediatore e del rapace. Possiede la pazienza del certosino compilatore di documentazioni burocratiche, di attese interminabili, di autorizzazioni sedimentate come lente gocce di stalattiti. E poi il talento di rapace capace di planare su terreni insospettabili sottrarli per pochi quattrini e poi serbarli sino a quando ogni loro centimetro ed ogni bruco divengono rivendibili a prezzi esponenziali. L’imprenditore rapace sa come saper far usare becco e artigli. Le banche italiane sanno accordare ai costruttori il massimo credito, diciamo che le banche italiane sembrano edificate per i costruttori. E quando proprio non ha meriti e le case che costruirà non bastano come garanzie, ci sarà sempre qualche buon amico del costruttore che garantirà per lui. La concretezza del cemento e delle stanze è l’unica vera materialità che le banche italiane conoscono. Ricerca, laboratorio, agricoltura, artigianati, i direttori di banca li immaginano come territorio vaporosi, iperurani senza presenza di gravità. Stanze, piani, piastrelle, prese del telefono e della corrente. Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz’Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion, che depredavano il fiume Volturno della sua sabbia. Dagli anni ’70 in poi. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiata da contadini che mai avevano visto questi mammuth di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e davanti ai loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato a coltivare e bufale, dopo le bufale hanno iniziato a mettere su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. Io so chi ha costruito l’Emilia Romagna, i quartieri nuovi di Milano, io so chi costruisce le ville in Toscana, le ditte di Michele Zagaria uno dei latitanti più ricercati, che lavorano in subappalto in mezz’Italia. I vantaggi che hanno queste ditte ed i loro committenti sono infiniti, gli inerti vengono saccheggiati portati vie dalle colline e dalle montagne. Le ditte d’estrazione vengono autorizzati per sottrarre quantità minime, ed in realtà mordono e divorano intere montagne. Quintali di pietrisco a basso costo partono da questi luoghi. Inerti a costo zero che andranno a rendere competitive le ditte al nord Italia mentre in mezza Europa cercheranno di accaparrarsi poiché sempre più diviene merce rara. Ma non a sud. Dove non c’è altro che scavare, costruire, tirare su. Io so e ho le prove. Qui la deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento finiscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. Spesso mentre le ditte dei clan trivellano, rompono per errore una falda acquifera e le cave diventano laghi artificiali. Potrebbe sembrare un freno alla corsa divoratrice dei palazzinari. Non lo è. I clan gestendo anche i traffici di rifiuti vincono gare di appalto per lo smaltimento dei veleni industriali, e fingendo di smaltire in inesistenti discariche si aggiudicano lo smaltimento di rifiuti pericolosi con prezzi bassi che nessun altra azienda in Europa avrebbe potuto proporre. Non si trattava di smaltire ma di buttare. In realtà le ditte non hanno alcun luogo dove smaltire rifiuti tossici, né impianti adatti. Li inabissano nei laghetti. In tal modo non solo hanno guadagnato dall’estrazione abusiva ma hanno anche creato un luogo dove nascondere i rifiuti tossici. In tal senso si può ricavare nuovo danaro e rendere le proprie ditte ancor più competenti al servizio in subappalto dei migliori costruttori in circolazione. Una volta in una vecchia trattoria di San Felice a Cancello, incontrai don Salvatore. Un vecchio masto. Era una specie di salma ambulante, non aveva più di 70 anni ma ne mostrava oltre 80. Mi ha raccontato che per dieci anni ha avuto il compito di smistare nelle impastatrici le polveri smaltimento fumi. Quintali di cemento impastato assieme a polveri velenose il cui costo di smaltimento per le aziende era una delle voci più alte del bilancio. Con la mediazione delle ditte dei clan camorristici, ogni costo si è abbassato e lo smaltimento occultato nel cemento è divenuta la cinetica che permette alle ditte di presentarsi alle gare d’appalto con prezzi da manodopera cinese.

Ora garage, pareti e pianerottoli hanno nel loro petto i veleni. Non accadrà nulla sin quando non si creperanno, e qualche operaio magari magrebino respirerà le polveri crepando qualche anno dopo incolpando per il suo cancro la malasorte. Gli imprenditori italiani vincenti non hanno altra forza che queste ditte capaci di stravincere come prezzi e qualità. Ogni vantaggio è scaricato su manodopera e sui materiali. Provengono dal cemento. Loro stessi sono parte del ciclo del cemento. Prima di trasformarsi in uomini di fotomodelle, in manager da barca, in assalitori di gruppi finanziari in acquirenti di quotidiani, prima di tutto questo e dietro tutto questo c’è il cemento, le ditte in subappalto, la sabbia, il pietrisco, i camioncini zeppi di operai che lavorano di notte e scompaiono al mattino, le impalcature marce, le assicurazioni fasulle. Lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana. La costituzione dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Einaudi, Ferruccio Parri, Nenni e il comandante Valerio. Furono proprio i palazzinari, a tirare per lo scalpo l’Italia affossata dal crac Sindona e dalla condanna senza appello del Fondo monetario internazionale. Quei costruttori si chiamavano Genghini, Belli, Parnasi. Poi ci fu l’’arrivo dei Caltagirone. Cementifici, appalti, palazzi e quotidiani. Oggi i nuovi volti. Ricucci, Coppola, Statuto. I tre nuovi rampanti imprenditoriIo so. So come si lavora nei cantieri. Come le impalcature vengono messe a castello, come la parte maggiore dei cantieri presenti in Italia non sia messo a norma, come i materiali siano saccheggiati, i terreni sottratti, gli operai tenuti a nero. I meccanismi sono scientifici, foggiati dalle più brillanti menti dei commercialisti del bel paese. Gli operai vengono costretti a sottoscrivere buste paga perfettamente regolari, così, soprattutto al nord, per eventuali controlli e monitoraggi di sindacati tutto è in regola. In realtà i lavoratori percepiscono il 50% in meno di quanto indicato. Un modo per dimostrare agli ispettori del lavoro il rispetto dei contratti. Una vera e propria evasione fiscale a tavolino che sottrae allo Stato solo per e ditte peranti al nord 500 milioni di euro, secondo quanti affermano i sindacati confederati degli edili. Cifre che rientrano nelle logiche del massimo ribasso. Oltre il 40 % delle ditte edili che agiscono in Italia sono del sud. Agro-aversano, napoletano, salernitano. Senza contare le miriadi di ditte di subappalto che non hanno traccia e quindi non rientrano nelle statistiche. Le imprese arrivano cariche di ragazzi meridionali e romeni. Pochissimi gli africani. La forza assoluta dei cartelli criminali è l’edilizia. Il certificato antimafia. Ormai ridicolo. Ogni ditta di Totò Riina e di Francesco Schiavone Sandokan avevano i certificati antimafia. Per poterlo ricevere basta dimostrare che nella propria azienda non lavorano personaggi condannati per associazione mafiosa. Che ingenuità! E anche qualora qualche affiliato condannato per mafia fosse loro dipendente questi lavorerebbe a nero e i controlli sono inesistenti. Eppure è vero. Nell’edilizia finiscono gli affiliati al giro di boa. Dopo che si fa una carriera da killer, da estorsore o da palo. Insomma dopo che si è passati nell’esercito dei clan si finisce nell’edilizia o a raccogliere spazzatura. Piuttosto che filmati e conferenze a scuola, potrebbe essere interessante prendere i nuovi affiliati, i ragazzini, e portarli a fare un giro per cantieri mostrando il destino di quando invecchieranno (se galera e morte dovessero risparmiarli) staranno su un cantiere invecchiando e scatarrando sangue e calce. Mentre imprenditori e affaristi che i boss credevano di gestire avranno committenze e spose modelle. Di lavoro si muore. Continuamente. La velocità di costruzioni la necessità di risparmiare su ogni tipo di sicurezza e su ogni rispetto d’orario. Turni disumani 9/12 ore al giorno compreso sabato e domenica. 100 euro a settimana la paga con lo straordinario notturno e domenicale di 50 euro ogni 10 ore. I più giovani se ne fanno anche quindici. Magari tirando coca, che qui vendono a 15 euro a pista. Le mascherine per evitare che le polveri siano inalate sembrano una provocazione e il cordino che dovrebbe assicurare alle impalcature i corpi degli operai è usato come portachiavi dei mazzi molteplici dei capimasto. Quando si muore nei cantieri, si avvia un meccanismo collaudato. Il corpo se morto viene portato via dal cantiere e a secondo della zona viene simulato un incidente stradale. Lo mettono in auto che poi si fanno cascare in scarpate o dirupi, non dimenticando di far prendere fuoco all’auto. La somma che l’assicurazione pagherà al morto verrà girata alla famiglia come liquidazione. Non è raro che per simulare l’incidente si feriscano anche i simulatori in modo grave, soprattutto quando c’è da ammaccare un’auto contro il muro, prima di darle fuoco con il cadavere dentro. Quando il masto è presente il meccanismo è funzionante. Quando è assente il panico spesso attanaglia gli operai. Ed allora si prende il ferito grave, il quasi-cadavere e lo si lascia quasi sempre vicino ad una strada che porta all’ospedale. Si passa con la macchina si adagia il corpo e si fugge. Quando proprio lo scrupolo è all’eccesso si avverte un autoambulanza. Chiunque prende parte alla scomparsa o all’abbandono del corpo quasi cadavere sa che lo stesso faranno i colleghi qualora dovesse accedere al suo corpo di sfracellarsi o infilzarsi. Sai per certo che chi ti è a fianco in caso di pericolo ti soccorrerà nell’immediato per sbarazzarsi di te, come dire ti darà il colpo di grazia. E così si ha una specie di diffidenza nei cantieri. Chi ti è a fianco potrebbe essere il tuo boia o tu sarai il suo. Non ti farà soffrire ma sarà anche quello che ti lascerà crepare da solo su un marciapiede o ti darà fuoco in un auto. Tutti i costruttori sanno che funziona in questo modo. E le ditte del sud hanno garanzie migliori. Lavorano e scompaiono ed ogni guaio se lo risolvono senza clamore. Io so ed ho le prove. E le prove hanno un nome. Sono Ciro Leonardo morto a 17 anni mentre stava riparando un solaio cascando dal settimo piano. Le prove si chiamano Francesco Iacomino, aveva 33 anni quando l’hanno trovato con la tuta da lavoro sul selciato all’incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele D’Annunzio a Ercolano. Nicola Tricarico 26 anni, fulminato mentre lavorava alla ristrutturazione di un negozio. A nero. Dopo l’incidente sono scappati tutti, geometra compreso. Nessuno ha chiamato l’autoambulanza temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Lasciando lì il cadavere raffreddarsi. E quando si muore al nord se non c’è tempo di abbandonare a sud il corpo la macchina incidentata è già pronta assieme alla benzina per occultare il corpo in un incidente sulle affollate e insanguinate strade padane. In sette mesi nei cantieri a nord di Napoli sono morti 15 operai edili. Cascati, finiti sotto pale meccaniche o spiaccicati da gru gestite da operai stremati dalle ore di lavoro. Bisogna far presto. Anche se i cantieri durano anni, le ditte in subappalto devono lasciar posto subito ad altre. Guadagnare, battere cassa e andare altrove. Prima si alzano palazzi, prima si vendono, prima si diviene imprenditori, prima i danari vanno altrove. Prima si possono comprare pompe di benzina, prima si possono avere garanzie con le banche, prima si possono sposare modelle e comprare giornali. A sud si può estrarre, si può ancora estrarre. Si possono depredare terre, mordere montagne, nascondere i veleni sotto la moquette della terra. A sud possono ancora nascere gli imperi le maglie dell’economia si possono forzare e l’equilibrio dell’accumulazione originaria non è stato ancora completato. A sud bisognerebbe appendere dalla Puglia alla Calabria dei cartelloni con il BENVENUTO per gli imprenditori che vogliono lanciarsi nell’agone del cemento e in pochi anni entrare nei salotti romani e milanesi. Un BENVENUTO che sa di buona fortuna siccome la ressa è molta e pochissimi galleggiano sulle sabbie mobili. Io so. Ed ho le prove. E i nuovi costruttori proprietari di banche e di panfili, principi del gossip e maestà di nuove baldracche celano il loro guadagno. Forse hanno ancora un anima. Hanno vergogna di dichiarare da dove vengono i propri guadagni. Nel loro paese modello, negli USA quando un imprenditore riesce a divenire riferimento finanziario, quando raggiunge fama e successo accade che convoca analisti e giovani economisti per mostrare la propria qualità economica, e svelare le sue strade battute per la vittoria sul mercato. Qui silenzio. Vergogna. E il danaro è solo danaro. Giuseppe Statuto e Danilo Coppola gli imprenditori vincenti che vengono dall’aversano da una terra malata di camorra, rispondono con cristallinità chi li tormenta sul loro successo: “ ho comprato a 10 e venduto a 300”. Una formula che difficilmente potrà essere sbandierata come modello di meritocrazia e perseveranza per ostacolare le cinetiche criminali. Ma chi segnalava questi affari, chi aveva un così capillare controllo del territorio? Quali validi agenti hanno usato capaci di comprare a così poco terreni? Nessuna risposta. Dalla terra prendi poi costruisci dalla costruzione hai garanzia e puoi avere così il debito e dal debito ancora palazzi e poi barche, e poi banche…Il meccanismo è banale. Terra è spazio per costruzioni. E come se si estraesse al contrario. Non si scava dalla terra carbone e bauxite. Ma dalla terra si cava l’aria e poi la luce e si occupano vani di ossigeno, il percorso è inverso, spalle al terreno e estrazione al contrario. Qualcuno ha detto che a sud si può vivere come in un paradiso. Basta fissare l’alto e mai, mai osare far cascare gli occhi al basso. Ma non è possibile. L’esproprio d’ogni prospettiva ha sottratto anche gli spazi della vista. Ogni prospettiva è imbattuta in balconi, soffitte, mansarde, condomini, palazzi abbracciati, quartieri annodati. Qui non pensi che qualcosa possa cascare dal cielo. La pioggia d’angeli descritta da Anatole France che casca su Parigi per organizzare la più grande rivolta contro gli errori del creato, non è neanche pensabile nel delirio etilico di qualche serata. Qui scendi giù. Ti inabissi. Perché c’è sempre un abisso nell’abisso. Qui dovrai urlare le parole del padre di Ciro: “Quando sbatti per terra e muori, ti immagini non che l’anima evapori, come ti raccontano al catechismo o vedi nel film Ghost, ma che delle mani ti prendano e ti portino più giù. Ancora più giù se è possibile della terra d’inferno dove viviamo”. E quest’abisso non ha il suo popolo. L’East End di Londra che ammonticchiava i suoi derelitti non esiste, e Jack London per comprendere la ferita della ragione occidentale dovrebbe alternare i suoi giorni tra le serate del generone imprenditoriale romano e i cantieri edili notturni. Così quando pesto scale e stanze, quando salgo nelle ascensori non riesco a non sentire è un vizio della mia psiche. Perché io so. Ed è una perversione. E così quando mi trovo tra i migliori e vincenti imprenditori non mi sento bene. Anche se questi signori sono eleganti, parlano con toni pacati, e votano a sinistra. Io sento l’odore della calce e del cemento, che esce dai calzini, dai gemelli di Bulgari, dai loro meridiani di Italo Calvino e dai loro thriller di Grisham. Io so. Io so chi ha costruito il mio paese e chi lo costruisce. So che non si vive la propria vita di scorribande e tormenti nelle belle ville in Toscana o in Puglia dei film di Giordana e della Comencini, so che stanotte parte un treno da Reggio Calabria che si fermerà a Napoli a mezzanotte e un quarto prima di giungere a Milano. Sarà colmo. E alla stazione i furgoncini e le Punto polverose preleveranno i ragazzi per nuovi cantieri. Un emigrazione senza residenza che nessuno studierà e valuterà poiché rimarrà nelle orme della polvere di calce e solo lì. Io so qual è la vera costituzione del mio tempo, qual è la ricchezza delle imprese. Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri.

Pubblicato su NUOVI ARGOMENTI n°32 ottobre-dicembre 2005 nella sezione IO SO

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