[A Carlo L. (1823)]
A CARLO LEOPARDI - RECANATI.
Roma 5 Febbraio [1823].
Caro Carlo. Dal tuono della tua lettera mi par di vedere che tu sei più allegro del solito, e non mi parrebbe inverisimile che tu ne fossi debitore ai colloqui avuti colla bella virtuosa, e a quei sentimenti che tu provi per lei, i quali credo che rassomiglino all'amore. Te ne felicito con tutta l'anima, e prendo parte ai tuoi sentimenti così da lontano, come ho preso parte ai geloni dell'aimable chanteuse; ma quanto al letto, tocca a te solo di prenderne parte, se puoi, come non credo. Ti ringrazio de' tuoi sonetti, a proposito de' quali mi viene quasi un sospetto che tu vogli divenire un altro Alfieri, colla differenza che questi si pose a studiare e comporre per la prima volta in età maggiore della tua, e tu in età minore non incominceresti gli studi, ma li riprenderesti, o piuttosto li continueresti. Certo è che i tuoi versi hanno moltissimo dell'Alfieresco, senza che tu forse te ne avvegga; e la cagione che t'indurrebbe alla poesia, sarebbe quella stessa d'Alfieri, cioè l'amore o una cosa di questa specie. Puoi credere, Carlo mio, quanto volentieri io farei qualunque cosa per te, cioè per me, giacchè tu ed io siamo stati e saremo sempre una stessa persona ipostatica, e non c'è bisogno di ripeterlo. Che Marini abbia una certa influenza sugli impieghi relativi ai catasti, è vero. Che ne sia padrone, non è vero, ma sono i soliti sogni e chimere di Zio Carlo, come ti scrissi. Io ho con lui una certa amicizia, ma di quelle amicizie fredde che si possono avere con persone occupate, che vedono un'infinità di gente ogni giorno, che hanno fatto fortuna a forza di travaglio, e con ciò si sono abituate all'egoismo, cioè al travagliare per se sole, giacchè se avessero travagliato per altri, non avrebbero fatto fortuna. In ogni modo è un uomo molto cortese; ci sarebbe forse anche il suo verso di prenderlo e d'affezionarselo, e se io ne potrò profittare per te, non potrò mancare di farlo. Mi congratulo con te dell'impressioni e delle lagrime che t'ha cagionato la musica di Rossini, ma tu hai torto di credere che a noi non tocchi niente di simile. Abbiamo in Argentina la Donna del Lago, la qual musica eseguita da voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso, giacchè m'avvedo pure di non averlo perduto affatto. Bensì è intollerabile e mortale la lunghezza dello spettacolo, che dura sei ore, e qui non s'usa d'uscire del palco proprio. Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de' giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno. Non ti parlerò dello spettacolo del corso, che veramente è bello e degno d'esser veduto (intendo il corso di carnevale); nè dell'impressione che m'ha prodotto il ballo veduto colla lorgnette. Ti dico in genere che una donna nè col canto nè con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo: il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino, ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana. Tu hai veduto di questi balli da festino, ma non hanno che far niente nè anche con quelli degli ultimi ballerini d'una pezza da teatro. Il waltz che questi talora eseguiscono, passa per un'inezia e una riempitura. In somma credimi che se tu vedessi una di queste ballerine in azione, ho tanto concetto dei tuoi propositi anterotici, che ti darei per cotto al primo momento. E prima e dopo della tua lettera ho lasciato sfuggire non poche di quelle inavvertenze e imprudenze che tu mi perdoni. Per servirti ho anche raccontato in tavola le prodezze della bella. La cattiva era molto attenta, come suole. Non credere ch'ella abbia molte distrazioni: almeno per me le distrazioni ch'ella ha sarebbero molto poco. Sta' poi sicuro che non ti fabbrica diademi, perch'ella è veramente del sistema de' miei ospiti: uscire, vedere e tornare a casa: vita porca, della quale vorrebbero a parte anche me; s'io fossi uno stivale più largo e più lungo dell'Italia. Tornati a casa con più noia di quando sono usciti, se ne vendicano collo strapazzarsi a vicenda, e con cento bellissime allegrie che sono una consolazione a trovarcisi presente, come mi tocca: ma ci ho fatto l'osso più duro d'un marmo. Giordani, il quale mi scrive, dopo un anno e più di silenzio, con grandissimo entusiasmo, mi domanda con infinita premura di te e di Paolina e vi saluta. Ti saluto anch'io e t'abbraccio di cuore. Non mi dir più che m'abbia cura, perchè son guarito e sano come un pesce in grazia dell'aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti, come volevano a ogni patto, ed essere stato in letto quanto m'è parso bene, che non la volevano in corpo. Addio, addio, ch'è ora di pranzo, e andremo a sentirne delle belle, secondo il solito.
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