16 gennaio 2008

Il Sessantotto rivisto

Quel che resta del Sessantotto
Gli studenti. Il potere. Le violenze. E poi, il rifiuto dell'autorità, l'idealismo…
A quarant'anni dalle rivolte studentesche, Tracce inizia un viaggio (con due guide di eccezione) in quella che Benedetto XVI ha chiamato «la grande crisi» della cultura occidentale. Non per celebrare, ma per capire.


a cura di Davide Perillo da Tracce n. 11, dicembre 2007


Tanto vale dirlo subito: lo sappiamo anche noi che con questo articolo corriamo un rischio. Ormai basta la parola - Sessantotto - e certe foto in biancoenero per provocare crisi di rigetto a due facce. Spartiacque, l'età. Dai trenta in su, viene da sbottare: ancora? Non se ne può più… Per i più giovani, al contrario, è facile che scatti l'effetto-Marte: che roba è? In entrambi i casi, la tentazione forte è voltare pagina e passare avanti. Tanto più adesso che l'anniversario ci rovescerà addosso tonnellate di inchiostro e melassa, rievocazioni e autocelebrazioni. Le prime avvisaglie ci sono già, e il tono generale - salvo rari accenni di autocritica - è quello nostalgico del «formidabili, quegli anni».
Se abbiamo voluto correre questo rischio, non è per accodarci alla retorica né per arginarla. Il punto è che quel periodo ha segnato davvero una svolta. Un passaggio di cui ci portiamo ancora dietro gli effetti. In Italia, forse, più che altrove. Non solo nella politica e nella società, ma nella mentalità. In certi snodi fondamentali del pensiero. Persino nell'atteggiamento su certe questioni attualissime, come l'emergenza educativa o la bioetica. Molto di quello che pensiamo adesso viene da lì.
Benedetto XVI, in un discorso di qualche mese fa, ha parlato di «cesura» e di «inizio o esplosione della grande crisi culturale dell'Occidente». È un giudizio potente. Vorremmo provare a capirlo meglio. Iniziando da questa conversazione tra due che nel '68 erano già in trincea, su posizioni lontane da quelle che rivivono adesso: Giancarlo Cesana, leader di Cl, e Giulio Sapelli, docente di Storia economica all'Università di Milano. Ecco il resoconto di questo faccia a faccia.
«Una risposta sbagliata a esigenze giuste. O almeno, in parte giuste. Ecco cos'è stato il '68». Il tempo passa, gli anniversari tornano. Ma nelle parole che Giulio Sapelli butta lì per definire gli anni della rivolta studentesca e operaia, c'è aria di giudizi controcorrente. Soprattutto per uno che molti dicono ancora di sinistra. L'onda principale continua a scorrere dalla parte opposta: festeggiamenti tanti, autocritiche poche. E di critica vera, di voglia di andare a fondo della questione per capirne i punti cruciali e le conseguenze ancora attuali, non è che ne circoli tantissima.
Così è un'occasione interessante riuscire a mettere uno come lui allo stesso tavolo con Giancarlo Cesana, che per chi legge non ha bisogno di presentazioni, ma di una precisazione sì: all'epoca non era ancora di Cl. Stava a sinistra. E occupava e protestava, come (quasi) tutti, andando dietro quel moto sincero che i rivoltosi tradirono quasi subito. Perché il motore, all'inizio, non era mica male. Lo stesso don Giussani, nel famoso libro-intervista con Robi Ronza (Il movimento di Comunione e Liberazione, Jaca Book, 1987), ne parlava così: «Riconoscemmo tutti immediatamente la giustezza dell'esigenza che i moti studenteschi portavano avanti: un'esigenza di autenticità maggiore e di maggiore libertà che ispirava la ribellione contro l'autoritarismo e contro strutture mortificanti». Da dove arrivò, allora, quel tradimento? E soprattutto: perché ne scontiamo ancora gli effetti?

L'impressione netta è che siamo l'unico Paese dove il '68 non è ancora finito. Siete d'accordo?
Sapelli. Direi di sì. Ma per discuterne l'attualità, bisogna prima capire che cosa fu il '68. Lì sono confluiti due grandi movimenti. Anzitutto, la rivolta operaia. Oggi gli operai sono dimenticati. Non esistono. Ma le loro rivendicazioni, allora, erano sensate. Avevano condizioni di vita durissime e salari bassi. Esigenze giuste, quindi. Fu la risposta a essere sbagliata, soprattutto da parte dei sindacati, che non seppero governarla e pagano ancora quella incapacità. Poi c'è stato il '68 come rivoluzione delle classi medie. Quello di cui parlava Pasolini, per capirsi. È stato un fenomeno analogo a ciò che abbiamo vissuto dopo la Prima Guerra mondiale. Solo che lì, come reazione alla Rivoluzione russa, il mondo andò a destra. Qui i figli dei ricchi borghesi si sono spostati verso sinistra.

Lei ha dato una lettura molto anticonformista di quel periodo: ha parlato di «gente di sinistra che faceva cose di destra», quasi fasciste.
Sapelli. I sessantottini hanno ripreso le forme dell'attualismo di Gentile, il teorico del fascismo: viene prima la violenza e poi l'idea. Guardi, all'epoca io ero un giovane comunista. Meglio, un cattolico trotzkista impegnato nella Fgci: sono sempre stato un po' matto... Comunque, ero figlio di operai: lavoravo, poi andavo a lezione la sera. A Torino c'era Massimo Mila, il musicologo, che ci faceva ascoltare Mozart con il giradischi. Be', una sera arrivano questi e sfasciano tutto: calci, insulti. Gli hanno dato del fascista. A uno che sotto il Duce aveva fatto anni di carcere, capisce? Venivo a Milano per fare i dibattiti e vedevo questi figli di papà in maglioni di cachemire che inalberavano i ritratti di Mao. No, il '68 è stato anzitutto un fenomeno borghese. Chi lo ha descritto meglio è stato proprio Pasolini, nella famosa poesia su Valle Giulia (luogo di scontri tra polizia e manifestanti romani; ndr) in cui prendeva le parti dei poliziotti, veri figli di operai.
Cesana. È vero, il '68 fu un fenomeno antiautoritario ma non rivoluzionario. Fu una forma di ribellismo delle classi medie e dell'intellettualità italiana. Non sarebbe continuato, i giovani non ne avrebbero avuto la forza, se i padri non li avessero appoggiati. E i padri erano gli intellettuali laici e cattolici che avevano ceduto al fascismo e che nel marxismo trovavano la loro redenzione. Erano come sconfitti della storia che cercavano rivincite. A un certo punto, questa intellettualità si è ribellata alla tradizione. Alla tradizione del popolo italiano: soprattutto cattolica e, meno, socialista. Il profilo culturale era quello lì. Poi si sono attaccati gli operai.

Avete parlato di antiautoritarismo e rottura con la tradizione. Non è che poi sono sfociati in una rivolta contro il principio stesso di autorità?
Sapelli. Lì si era divisa l'autorità dalla libertà. Questo è indiscutibile. La libertà esiste solo dove c'è l'autorità. Deve servire per qualcosa, in rapporto con l'altro. Non può servire solo per te. Da questo punto di vista, la frattura iniziata in quel periodo è stata terribile. Ha generato una crisi di dissoluzione che continua anche oggi.

Ma quanto c'era di sincerità e quanto di opportunismo?
Cesana. Non si possono dare giudizi morali su questi fenomeni storici. Sulla sincerità, ognuno se la vedrà con la sua coscienza. Io giudico i dati di fatto. L'intellighenzia italiana, Bobbio e Scalfari, per esempio, era fascista. Ha perso la guerra. Ha cercato di rifarsi. E ha trovato un'occasione nel '68. Poi, intendiamoci: i motivi a favore della ribellione c'erano, eccome. Da medico del lavoro ho lavorato nelle acciaierie. Be', ho visto cose che a raccontarle oggi non ci si crede. C'era il forno di ricottura, dove si riportavano a 900 gradi i pezzi di acciaio già modellati per rifinirli. C'era un tizio che prendeva la rincorsa, saliva sul forno, imbragava il pezzo nelle catene perché lo rimettessero dentro, poi scendeva di corsa e andava a immergersi nell'acqua fredda… Ma bisognerebbe parlare anche della scuola di allora: elitaria e parruccona. Io ero figlio di un tranviere. Bene: a Medicina, ero uno dei pochissimi. Tutti gli altri erano figli di professori, intellettuali, al massimo impiegati. Comunque, borghesi. E infatti, vedendoli, una delle cose che mi colpivano di più era il modo in cui buttavano via i libri... Per me, era una dissipazione inspiegabile.
Sapelli. Era una società spietatamente classista, questo va detto. Ma la cosa straordinaria è che non si sono ribellati gli esclusi, ma gli inclusi. In questo senso era ribellismo delle classi medie. Guidato da attivisti politici a tempo pieno, che si sono autoproclamati avanguardia rivoluzionaria.
Cesana. Peccato che l'effetto di trascinamento, dopo, sia stato il "tutti dentro". Nel 1976 all'università di Milano c'erano 2.700 matricole di Medicina: più di tutto il Regno Unito messo assieme. Di quelle rivendicazioni è rimasta, come esito, una serie di diritti: diritto al posto, diritto a studiare quello che vuoi… Tanto per capirsi: io sono entrato in università nel 1967. Dopo qualche giorno abbiamo occupato, perché avevano bocciato il 90 per cento della gente all'esame di Biochimica. Quando sono uscito, sei anni dopo, l'università era ancora occupata. Abbiamo avuto dieci anni in cui è stato un casino generale. Ed è stata distrutta la meritocrazia. Poi queste cose le paghi.
Sapelli. In più, c'è stata la violenza. Si ha un bel dire: non criminalizziamo, non facciamo generalizzazioni, eccetera. Senza il '68, non ci sarebbe stato il terrorismo. Il nocciolo era lì. Nel "18 politico" e in quegli esami non molto lontani da quelli che facevano i fascisti, con la camicia nera e le pistole sul tavolo. Anch'io mi ricordo sempre di gente come Guido Viale che bruciava i libri dicendo: sono i libri della cultura borghese. No, la verità è che era iniziata una dissoluzione. Che poi è la cifra di oggi: viviamo ancora una crisi dissolutiva dello Stato e dell'ordine sociale.

E la chiave di tutto è ancora quella: il disconoscimento di autorità e tradizione. Il rifiuto di riconoscere qualcosa che viene prima di te.
Sapelli. Si confonde l'autorità con il potere. Il potere è costringere una persona che non vuol fare qualcosa a farla. L'autorità è tutta un'altra cosa. Chi l'ha descritta meglio è stato Manzoni, parlando del cardinal Borromeo: l'autorità che «si ponea per il solo suo porsi». Io sono libero se credo in qualcosa. Se non credo in niente sono nichilista. Nel '68 si è diffuso un nichilismo di massa che respiriamo ancora. Basta guardare al rapporto padri-figli. O a quello uomo-donna. E non parlo delle questioni tipo aborto o divorzio: faccio un discorso di pura organizzazione della vita sociale. È stata una catastrofe da cui non siamo ancora usciti. Pensi al tema attualissimo del testamento biologico: il medico e il paziente sono la stessa cosa. E l'autorità medicale? Come fa il paziente a decidere lui tutto? Sulla base di quali elementi può farlo? Oppure, ancora: il referendum sul nucleare. Ma le pare possibile che una massaia o un professore di letteratura votino sul nucleare? La verità è che siamo ancora in pieno '68. E scontiamo l'inadeguatezza della nostra classe dirigente. Perché la grande differenza con gli altri Paesi è stata quella. In Francia, De Gaulle ha stoppato tutto subito. Anche in America, dove pure avevano motivi più seri come il Vietnam, il caos è durato poco. Noi eravamo un Paese invertebrato. E infatti è venuto giù tutto. I sindacati, l'associazionismo, anche cattolico...
Cesana. E qui si capisce meglio la grandezza di Giussani, che nel 1954 ha fatto una cosa nuova perché aveva capito che non avrebbe resistito nulla.

Se facciamo l'appello delle sigle di quel periodo, sono sparite tutte. È viva solo Cl, che proprio in quegli anni è rinata. Come ve lo spiegate?
Cesana. È come se Giussani avesse dovuto reinventare il cristianesimo per poterlo vivere lui. Quando ha cominciato a insegnare, è andato al Berchet, che era una scuola laicissima. Lui doveva rispondere alle domande degli studenti per rispondere a se stesso. Io ero di sinistra, sono entrato nel movimento nel 1971. Ho fatto il percorso al contrario. Un po' perché ero operaista, molto per motivi personali. Mi ero innamorato, lei non ci stava, e mi sono detto: ma come, io sto facendo la rivoluzione per cambiare il mondo e l'unica cosa che voglio non ce l'ho? Dov'è la giustizia? Poi ho incontrato Giussani… Ma per rimanere cattolici in un ambiente così anche noi siamo stati costretti, con lui, a ripensare tutto. Il modo di giudicare, di interloquire, il linguaggio… Da questo punto di vista è stata un'esperienza ricchissima. Nei primi anni, anche molto problematica: dovendo ripensare tutto, la nostra preoccupazione era di trovare un posto al sole. Di collocarci. Quando questo problema è venuto meno, con l'intervento di Giussani nel 1975-76, è stata un'esplosione. Una rivisitazione di tutta l'esperienza enorme.
Sapelli. In questo senso, don Giussani non era stato un teologo: era un grande educatore.
Cesana. Diciamo un padre della Chiesa. Uno che è preoccupato di trasmettere ai figli quello che viveva lui.

Il contrario del '68...
Sapelli. Appunto. Mentre dal cattolicesimo che conoscevo io, come quello di certi ambienti intellettuali torinesi, che messaggio veniva? Io in quegli anni mi sono allontanato non dalla fede, ma dalla pratica religiosa, perché non sentivo nessuna attrazione. Mio papà era un uomo più semplice: un po' come quella contadina con la carota che incontra don Giussani… Lui non aveva bisogno di grandi giustificazioni. Per me era più complicato: stavo diventando un intellettuale, leggevo, criticavo. Per me, quella Chiesa lì era anche una Chiesa di testimonianza, ma non aveva nessun fascino.
Cesana. Come disse una volta Gustavo Bontadini a Ugo Spirito: faceva un discorso coerente, ma non cogente. Potevi apprezzare la dedizione di uno, o l'intuizione dell'altro, ma non venivi colpito. Con Giussani no: o ci stavi, o non ci stavi.

A proposito di educatori, c'è un altro aspetto travolto dall'idea di rompere con la tradizione: se bruci i ponti con il passato, non pregiudichi la possibilità di buttarli con chi arriva dopo? Insomma, l'emergenza educativa di oggi non affonda radici anche lì?
Sapelli. Questa era una delle cose che più mi mandavano in bestia. Come fai a parlare di cultura borghese e cultura proletaria? Goethe cos'è: cultura borghese o proletaria? E Thomas Mann? Non dovevi leggere Stendhal e compagnia bella. Ma si può? Questo concetto della "cultura borghese" è vivo ancora adesso. Basta leggere i manuali che usano i ragazzi oggi: non c'è una data. In questo sì, c'era un elemento di rifiuto della tradizione. Ma fa parte del rifiuto dei padri.

E il rifiuto dei padri non ti impedisce di essere padre a tua volta, di educare?
Sapelli. Non so. Di sicuro, in quel momento si è perso il controllo. Non controllavano più niente. Era come l'affermarsi di un ego smisurato. Ecco, anche il narcisismo, che pure è un altro elemento di una società in crisi come la nostra, affonda radici lì. Ed è un dato imponente almeno quanto il nichilismo. Basta guardare la tv, dai reality ai talk show: c'è gente che farebbe di tutto, per esserci.
Cesana. Vero. Prima, l'idea di fare qualcosa del genere ci avrebbe fatto vergognare a morte. Il principio della dedizione all'ideale era più forte. L'ideale veniva prima di te. Anche con qualche forma di ipocrisia, ma c'era.
Sapelli. Il che, in fondo, è un'altra conferma che è stato un movimento borghese. Quello che mi sconcerta, però, è che non puoi fare un ragionamento sereno, un'analisi. Dici queste cose, e ti ribattono subito: ecco, sei un nemico, stai diventando di destra...

Ma anche questo schematismo destra-sinistra, questa invadenza della politica fino a dover incasellare tutto, non è un'altra zavorra di quegli anni?
Sapelli. Sì, è il politically correct. Pure quello viene da lì. O meglio: lì comincia a diffondersi come ideologia di massa. È un rifiuto della libertà, no?

Ha appena ripetuto una parola chiave: libertà. Nel '68, da tutto quello che avete detto, si capisce che fu usata male. Oggi il rischio è tale e quale. Ma c'è qualcosa che aiuti a non sprecarla? Un punto di ripartenza possibile dalle secche in cui ci ha lasciato quest'onda lunga?
Sapelli. Da un punto di vista personale, sì. C'è un "Dio nascosto" che è lì, come diceva Pascal. Basta vederlo. Ma socialmente non c'è da essere ottimisti. Ecco, forse l'insegnamento è che bisogna partire sempre dal cambiamento micro, non macro.
Cesana. È evangelico, questo: se non sarete fedeli nel piccolo…



Ringrazio A.N. per questo contributo

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