Che differenza c’è tra la Russia e il criceto?
Ricordate la barzelletta: “Che differenza c’è tra il topo e il criceto? Praticamente nessuna, è solo che il topo ha un cattivo PR”. La barzelletta si può applicare totalmente al nostro paese. La Russia è l’eterno “topo” della storia del mondo (o perlomeno d’Europa). Solo per un tempo limitato o in uno spazio limitato lo stato russo – sovietico – di nuovo russo ha suscitato emozioni positive nella comunità mondiale. Adesso ci troviamo di nuovo in un periodo di negatività piuttosto forte. “La nuova guerra fredda” e cose del genere. Lo senti particolarmente forte quando a Santiago – sull’altra parte del globo terrestre – il cameriere di un caffè fa schioccare la lingua : “La Russia? Oh, da voi c’è una tale dittatura!”. E’ estremamente difficile credere che sia giunto ad avere questa opinione attraverso una seria conoscenza di tutte le contraddittorie particolarità dello sviluppo della Russia dopo El’cin. Semplicemente adesso anche i bambini piccoli in tutto il mondo sanno bene che “La Russia è tornata ad un regime autoritario”. Perché hanno concluso così? Beh, ma lo sanno tutti! Non si può dire che il paese o il governo non siano consapevoli o ignorino questo problema. Infatti già da alcuni anni si annuncia ufficialmente la necessità di “migliorare l’immagine del paese” e si compiono i “necessari” sforzi in questo senso, compresa perfino la creazione di uno speciale canale TV – la nostra asimmetrica risposta alla CNN. Tuttavia i risultati di questi sforzi sono deludenti – non c’è alcun segno che il livello di simpatia per la Russia cresca in qualche modo. “Non ci capiscono, non vogliono capirci”. E’ vero. Ma questo è un problema esclusivamente nostro. Se non capiscono la tua campagna pubblicitaria, la colpa è esclusivamente tua. Quali sono i motivi di questa cronica incomprensione e come possiamo – se possiamo – lottare con essa? Prima di tutto è necessario esaminare la variante “Lasciare tutto com’è”. In generale la situazione non è così catastrofica da esigere azioni assolutamente improcrastinabili. Commerciano, fanno credito, danno i visti, non si preparano ad attaccarci – di cos’altro abbiamo bisogno? Gradualmente l’atteggiamento “Non ci capiscono, che vadano al diavolo” si comincia a notare nelle stanche dichiarazioni dei rappresentanti ufficiali della Russia. Effettivamente adesso siamo necessari all’“Occidente” ben più di quanto esso sia necessario a noi (qui appare una particolarità molto importante della coscienza russa – noi riteniamo sinceramente che la preoccupazione per l’immagine sia roba da deboli e da mendicanti). Comunque il problema non è nell’“Occidente”, è in noi . Poiché noi stessi vogliamo tanto che ci amino e ci capiscano e di offendiamo quando questo non succede. Per smettere del tutto di preoccuparci dell’immagine, avremmo bisogno prima di tutto di uccidere in noi quest’aspirazione inseparabile da noi all’amore di tutti. A mio giudizio questo è difficilmente possibile. Perché noi stessi amiamo il mondo circostante – Parigi, Londra, New York, Buenos Aires. La maggior parte di noi vuole sentirsi “al suo posto” in queste città. Noi vogliamo che anche da noi vengano intellettuali amanti dell’architettura e del balletto e non tifosi di calcio o cercatori di avventure. Per vivere come l’Iran, ignorando l’opinione di chi ti circonda, bisogna, come l’Iran, ritenere sinceramente che quelli che ti circondano non abbiano nulla che meriti attenzione. La Russia ben prima di Pietro [1] era abituata a confrontare con invidia il proprio sviluppo con quello dell’Europa. Il Terribile [2] e Kurbskij [3] inviarono oltre frontiera una grande quantità di lettere, buona parte delle quali si può ricondurre alla domanda: “Dobbiamo essere simili agli stati europei?”. A quel tempo la Russia aveva già fatto una scelta importante: era stata rigettata l’unione di Firenze [4], con il risultato che non solo ci circondammo di una “cortina di ferro” religiosa che di divise dall’Europa cattolica, ma complicammo anche i rapporti con una parte degli ortodossi (ricordate gli epiteti utilizzati da Gogol’ contro gli uniati [5]). Tornammo a un’idea di “integrazione europea” sotto Pietro e i suoi eredi [6]. Ma anche in seguito periodi di isolazionismo si alternarono con una certa regolarità a quelli di “internazionalismo”, il che sembra un’ipotesi ragionevole: gli uni e gli altri sono organicamente necessari alla Russia per il suo sviluppo. Purtroppo le radici dell’autocoscienza nazionale russa finora non sono state studiate a fondo (i liberali evitano accuratamente questo tema e i nazionalisti ritengono che ci sia sempre stata – quest’ultima ipotesi sembra antistorica in modo lampante [7]). Un serio tentativo fu intrapreso all’inizio del ХХ secolo da P. Miljukov [8] nei fondamentali “Saggi di storia della cultura russa” – notevoli come idea, ma non sempre validi come esecuzione. Tuttavia il principale, aprioristico assunto dell’occidentalista Miljukov è il radicale ritardo dello sviluppo della Russia in confronto all’Europa. Personalmente mi sembra che a questo postulato sia data troppa importanza e che sia troppo ardito per considerarlo degno di fede. Alla storia della Russia si può guardare anche in altro modo: in alcuni importanti aspetti dello sviluppo sociale ci siamo mossi in sincronia con i paesi europei più avanzati e fra l’altro siamo giunti a questo in modo assolutamente indipendente. Questo si può applicare pienamente all’autocoscienza nazionale e all’idea di stato. Nella maggior parte dell’Europa Occidentale questa concezione non si è formata prima del XVIII secolo. Effettivamente: cos’è la Francia fino all’unione con la Bretagna e la Borgogna? Cos’è la Gran Bretagna fino al completamento dell’unione di Inghilterra, Galles e Scozia? Italia e Germania come stati sono un frutto della seconda metà del XIX secolo (fra l’altro la Germania non è mai stata del tutto uno stato nazionale – buona parte della popolazione di lingua tedesca è rimasta in Austria e in Svizzera, mentre fino alla Seconda Guerra Mondiale nella stessa Germania c’erano regioni di popolazione tradizionalmente slava [9]). La Russia ha cominciato ad aver coscienza di se come stato nazionale molto prima: quando la Moscovia conquistò Novgorod [10], liquidando al tempo stesso una potenziale “diarchia” tra i territori di lingua russa. Tra i paesi europei solo la Spagna e il Portogallo all’incirca in quel tempo cominciarono ad aver coscienza della propria identità nazionale. Questi avevano motivi simili – la contrapposizione a un’altra cultura espressa con forza, quella degli arabi (nel nostro caso erano i mongoli). Subito dopo la lunga e complessa reconquista [11] due giovani nazioni europee di sintesi (nella misura in cui avevano assorbito e accolto buona parte degli arabi insieme ad elementi della loro lingua e della loro cultura – cfr. le influenze organiche tatare nella lingua russa, ma anche i numerosi principi tatari al servizio russo [12]) hanno cominciato un processo di espansione coloniale. Di per se i suoi primi stadi – gli avamposti dall’altra parte di Gibilterra – furono la logica prosecuzione delle guerre con il califfato di Granada. All’incirca allo stesso tempo la liberazione dei russi dai mongoli altrettanto logicamente e senza scossoni sfociò nella colonizzazione delle terre uraliche e siberiane. A tal proposito, a mio parere, la precoce espansione coloniale ebbe analoga influenza sulle forme interne della vita politica in Russia e nei paesi iberici: per alcuni secoli per la parte politicamente ed economicamente più attiva dei cittadini fu più semplice e comodo dirigersi verso la periferia che cercare di influenzare la situazione della metropoli. Qua e là il risultato fu il conservatorismo e l’immobilismo del potere centrale, rivelatisi catastrofici per la Spagna dopo la perdita delle colonie all’inizio del XIX secolo. A quei tempi il resto dell’Europa era troppo lontano dalla percezione della nazione come base dello stato – questa percezione era impedita dalla presenza di un “altro” espresso con forza. In enorme grado la moderna autocoscienza dell’“Occidente” – la stessa idea dell’esistenza di una cultura più o meno comune da qualche parte ad ovest del Danubio e della Vistola – fu formata dalla pressione degli Ottomani e dall’espansione della Russia. Lo stabilimento e il mantenimento di una frontiera con queste grandi potenze era alla base delle prime idee di “mondo occidentale”. Da questo punto di vista non c’è niente di particolarmente stupefacente nel fatto che di distinguiamo dall’“Occidente” – la sua determinazione si è creata proprio per separarsi da noi. Bisogna considerare che questa costruzione del russo come altro si è avuta in tempi in cui l’attuale idea di multiculturalità sarebbe apparsa una follia. L’“Altro” poteva essere solo “inferiore”, in caso contrario tutta la costruzione avrebbe portato in se avrebbe portato in se un complesso d’inferiorità. Giungendo in paesi come la Cina o l’India, gli europei sapevano a priori di andare verso culture inferiori – sia pure sviluppate “perversamente” (vedi la classificazione dei popoli di Taylor [13]). Per amor di giustizia notiamo che i cinesi rispondevano ricambiando sinceramente, a dire il vero con maggior fondamento – ancora all’inizio del XIX secolo si dava il caso che dalla Cina venisse un terzo della produzione industriale mondiale, mentre dalla Gran Bretagna – il 4,3%! La Russia si trovava sul confine tra questi mondi, ma comunque nel “secondo” (anche dal punto di vista economico, fino all’inizio del XIX secolo eravamo la maggiore potenza industriale d’Europa secondo la ricostruzione di Paul Kennedy [14] nell’“Ascesa e la caduta delle grandi potenze”). L’idea diffusa della continua e storicamente evidente arretratezza della Russia rispetto all’“Occidente” alla prova dei fatti risultano non più che un’ipotesi, fra l’altro un’ipotesi discutibile. L’unicità della nostra situazione sta nel fatto che, a differenza della Cina, da molto tempo concordiamo con essa, l’abbiamo “interiorizzata” (un po’ come buona parte dei rappresentanti delle minoranze razziali negli USA accetta una posizione subordinata rispetto ai bianchi – nella sociologia americana questo fenomeno viene descritto con il termine “oppressione interiorizzata”). Questa “interiorizzazione dell’arretratezza” è cominciata senza dubbio sotto Pietro. Fra l’altro, pare, il tratto principale del giovane zar era l’ammirazione per “lo stile di vita occidentale” in grado ben maggiore che l’analisi comparativa oggettiva dei pregi e dei difetti dei sistemi politici e delle tecnologie russi ed europei. I successi militari sugli svedesi furono in gran parte conseguenza dell’idea, applicata per la prima volta, di “guerra totale” – con la mobilitazione globale delle risorse dello stato, delle organizzazioni (la chiesa) e della popolazione – un’idea in quel momento originalmente russa (l’Europa ci giungerà quasi cent’anni dopo, durante la difesa della Rivoluzione Francese dall’intervento straniero). Curiosamente negli anni ’70-‘80- anche l’URSS perse non tanto “la corsa agli armamenti”, quanto “la corsa allo stile di vita”: teoricamente il paese era in grado di reggere la competizione militare con gli USA ancora abbastanza a lungo, tuttavia nessuno voleva continuare questa competizione a questo prezzo – a prezzo di scaffali vuoti, televisori che cadono a pezzi, abiti miseri ecc. Sotto Pietro per la prima volta la differenza russa nel livello di comfort (in quel momento molto relativa, se si considera la gran massa della popolazione) era spiegata all’interno con l’arretratezza generale del paese. Questa spiegazione si rafforzò nel corso di tutto il XVIII secolo in forza di circostanze ulteriori, cioè il dominio di piccoli stati tedeschi nella politica matrimoniale e dinastica della corte russa. La cultura politica russa moderna fu formata in grandissima misura proprio allora – da principesse europee di secondo piano e dai loro consiglieri. Da questo materiale storico Spengler [15] trasse l’idea della “pseudomorfosi” delle culture – l’inserimento della più forte nelle forme della più debole. In modo particolarmente evidente questo si è mostrato nella politica esterna, strumento chiave per la formazione dell’immagine storica della Russia. La Russia è stata guidata molto spesso – e viene guidata adesso – con una mentalità da piccolo paese. Per cui sono caratteristici: il breve orizzonte temporale, il gonfiare piccole diatribe a dimensioni universali e una facile tendenza alla paranoia. Questa politica si è sempre trovata in contrasto con il livello oggettivamente evidente di risorse del paese. Di conseguenza la Russia ha spesso profuso tutti i propri enormi sforzi per la soluzione di problemi politici di secondo piano (cfr. la nostra attuale “contrapposizione” nei confronti della Georgia con la probabile leggenda su come Nicola I [16] minacciò un intervento militare contro i francesi dopo essersi offeso per una frivola piece su sua nonna – Caterina II), creando nei politici europei una sensazione di grande inadeguatezza. Trovandosi alla periferia geografica d’Europa ed essendo in grado di risolvere i propri problemi con la forza, la Russia ha formato la propria cultura interna senza tener conto degli interessi degli altri. Il modo russo di fare alleanze è stato caotico ed incoerente (a differenza della Gran Bretagna : Churchill aveva tutti i motivi per affermare nelle proprie memorie che per 300 anni la politica britannica in Europa si è retta su un’unica concezione – l’alleanza con la seconda potenza politica continentale per arrestare la prima). E’ possibile che, dopo gli insuccessi dell’inizio del XIX secolo, finiti con la sconfitta di Austerlitz, abbiamo deciso che la politica europea era insensatamente complessa, intricata e ipocrita e che era necessario sforzarsi di risolvere tutti i propri problemi in modo totalmente autonomo. Per questo ci punirono con forza nella guerra di Crimea (anche la guerra con la Turchia del 1877-78 e la guerra russo-giapponese le portammo avanti in una situazione di neutralità a noi nemica). Periodicamente cercano di punirci anche adesso, ma sinceramente non capiamo perché. Continuiamo a ritenere che la nostra sopravvivenza e il nostro benessere dipendano solo dalla nostra forza e che non siano in alcun modo legati alla capacità di piacere agli altri e di aiutarli – sia pure con fini pragmatici. Non sentendo di avere un proprio posto nel mondo, la Russia si è trovata priva di una missione positiva in esso. Personalmente questo mi ha particolarmente colpito alla lettura di “Dalla Rus’ [17] alla Russia” di Lev Gumilëv [18]. Spiegando la storia russa, questo non cerca neanche di porsi due domande elementari: “In che modo la Russia è stata necessaria al mondo? Cosa gli ha dato?” (perfino i messicani a suo tempo si sono impegnati a far uscire il bel libro “Cos’ha dato il Messico al mondo ХХ secolo”). Per qualche tempo ci siamo ritenuti i difensori dell’ortodossia (che noi stessi abbiamo pure creato nel suo aspetto attuale), poi i liberatori degli oppressi. Entrambi le missioni hanno polarizzato l’atteggiamento verso di noi nel mondo, ma anche nella nostra ristrettezza ci hanno garantito una certa quantità di amici. Per il russo laico moderno la questione “Perché siamo al mondo?” resta completamente aperta. E’ difficile che tu possa aspettarti amore dagli altri o quanto meno rispetto, se tu stesso non pensi a qualcosa da proporre in cambio. Questi fattori, che di per se non ci rendono particolarmente simpatici, si assommano alla crisi interna della società occidentale. L’idea del carattere monolitico dei “valori occidentali moderni” è piuttosto un modello da esportazione. Invece gli studiosi seri a volte si trovano in una situazione prossima al panico. “...Io sento che l’uomo dell’Occidente si trova nel pieno di una crisi senza precedenti dei valori del diritto e della riflessione su di esso” – dall’introduzione al notevole lavoro di Harold Berman sulla precedente tradizione occidentale del diritto. Questo autore non è affatto l’unico a percepire cose del genere. Il pensiero occidentale si completamente confuso nell’aspirazione da un lato ad assicurare l’uguaglianza e la felicità generali, dall’altro a mantenere e a moltiplicare i “valori umani”. Il compito, in effetti, appare insolubile – come, per esempio, far convivere l’esigenza di parità dei diritti delle donne con il rispetto delle culture tradizionali? Dire che il dominio esercitato dagli uomini è un relitto storico non si può, in quanto sarebbe una manifestazione di eurocentrismo. Neanche acconsentire alla dominazione si può, in quanto corrobora “tentativi essenzialisti (nuovo insulto alla moda nelle scienze sociali che sta a significare l’ipotesi che le differenze tra le persone possano avere fondamenti oggettivi – n.d.a.) di dare un fondamento al maschilismo”. Non perdiamo molto, restando del tutto al margine di tali discussioni. Immergendosi in esse – tra l’altro – diventerebbe chiaro che per diventare parte del mondo civile, ci tocca aspettare che questo mondo chiarisca finalmente cos’è. Per quanto riguarda i nostri rapporti con gli USA – particolarmente complessi per recenti motivi storici – la situazione si complica per la presenza negli americani di problemi psicologici interni del tutto speculari ai nostri. Parrà strano, ma anch’essi sentono istericamente una catastrofica caduta del loro significato nel mondo e una perdita del rispetto generale. Negli ultimi vent’anni noi ci siamo già rassegnati alla disgregazione del mondo post-sovietico, essi pure entrano nello stadio doloroso della presa di coscienza della disgregazione di quello post-americano, trovandosi pure ad essere un paese senza una missione positiva. All’improvviso è risultato che avevano acquistato la maggior parte dei propri amici capeggiando l’anticomunismo mondiale, ma dopo la caduta dell’URSS la necessità dell’amicizia con gli USA è diventata tutt’altro che evidente. Per molti versi perciò l’America sente in modo particolarmente doloroso tutte le deviazioni dei russi da ciò che ritiene la “giusta” via, poiché queste deviazioni mettono a rischio il loro più caro successo in politica estera – “la vittoria nella guerra fredda”. Per noi, d’altra parte, è molto difficile capire perché il Giappone, con la sua economia semichiusa e la sua democrazia poco trasparente (e anche con la storia dei suoi difficili rapporti con il mondo), non è indicato come una minaccia all’opinione pubblica mondiale, mentre con la Russia non passa l’idea di “particolarità”. E’ paradossale, ma il motivo principale è il fatto che negli ultimi 200 anni siamo diventati simili all’“Occidente” in modo irritante. Negli studi sugli scambi multiculturali viene descritto questo fenomeno – l’incomprensione delle culture vicine. Nei confronti degli stessi giapponesi e cinesi gli occidentali spesso dimostrano molta più tolleranza di quanto siano pronti a mostrarne a un rappresentante di uno stato vicino. Nel primo caso partono dalla “presunzione di alterità”, nel secondo ritengono indubbiamente che quella persona debba essere uguale. La Russia in gran parte è ostaggio di questo paradosso. Noi viviamo del tutto secondo le stesse logiche dell’“Occidente”. Se si legge la descrizione di ciò che è ritenuto il modello della mentalità americana, i paralleli con noi sono semplicemente sconvolgenti (è difficile che sia un caso: dimensioni e risorse simili hanno insegnato a pensare e ad agire secondo paradigmi simili). Tanto più irritanti appaiono le differenze. Mi permetto di proporre una metafora: c’è la geometria di Euclide e la geometria di Lobačevskij [19]. Queste sono del tutto equivalenti. Il loro apparato di teoremi è equivalente. Lobačevskij nelle sue costruzioni ha seguito la logica di Euclide se possibile in modo ancor più severo, distinguendosi solo in un assioma fondamentale – ha supposto che le rette parallele si incontrino all’infinito (cercando di dimostrare questo postulato, come teorema, a partire da quello contrario). Di conseguenza, per esempio, la somma degli angoli del triangolo per Lobačevskij non è uguale a 180 gradi ed è garantito che la figura con tale somma di angoli non sia un triangolo. Le nostre differenze rispetto all’“Occidente” sono molto simili alla comparazione delle geometrie: la logica è la stessa, ma una qualche differenza data storicamente muta le conseguenze dell’applicazione di questa logica. Noi ci stupiamo, che i nostri triangoli abbiano una somma di angoli “erronea”, non capendo che proprio questo “errore” li renda triangoli nel nostro spazio. In tal modo il problema dell’immagine russa consiste in: а) differenze oggettivamente chiare di punti di vista e sistemi e b) incapacità nostra e dell’“Occidente” с «Западом» di agire e comunicare in termini mutuamente comprensibili, senza prediche e offese. Proprio la soluzione della seconda parte del problema è nelle nostre mani. L’ostacolo principale è la mancanza di coscienza del fatto che possiamo essere parte del mondo solo se gli siamo banalmente utili. Sì, alla mentalità russa repelle l’idea di una traduzione dei rapporti “personali” in “commerciali”. Tuttavia da parte del resto del mondo questo pare semplice egoismo. La nostra attuale immagine è utile anche ad alcuni gruppi della società occidentale: ci amano molto avventurieri e politici. Agli uni e agli altri diamo modo di confermare il proprio punto di vista, che si può leggere bene nel giornalismo occidentale che si occupa della Russia: autori abbastanza superficiali si permettono i più stupidi errori quando parlano di fatti, si sentono portatori della più alta conoscenza, irraggiungibile agli “incivili” russi (perfino in confronto al vittoriano Taylor si nota un sostanziale regresso). Il guaio è che questo “amore” si basa sullo sfruttamento di tutti quei nostri tratti di cui noi stessi preferiremmo liberarci. E buona parte del mondo ci giudica secondo queste descrizioni – vedi sopra la storia del cameriere cileno. Abbiamo bisogno di cercare altri gruppi di sostegno e di capire cosa possiamo dargli. Quasi non sfruttiamo la grande risorsa del business mondiale – e questo non si affretta a farci pubblicità. Questo sembra strano: posso affermare con convinzione che, nonostante le voci diffuse sulla difficoltà di fare affari in Russia, le compagnie internazionali fanno soldi qui, compensando praticamente in toto qualsiasi difficoltà. Del fatto che non vogliano parlare di questo siamo colpevoli noi stessi con la nostra fissazione per l’autosufficienza economica. Il segnale che di fatto mandiamo adesso è: noi vi sopportiamo come male inevitabile, ma non appena la nostra economia si solleverà, ci assicureremo tutto da soli. Una prospettiva del genere difficilmente rallegra qualcuno all’estero. Inoltre è utopica e dannosa per il paese: l’esperienza dell’URSS ha mostrato che un economia può, di principio, produrre tutto – dal chiodo allo Sputnik – ma lo farà con poca qualità e ad alto prezzo. Ci converrebbe riformulare il messaggio al business mondiale in questo spirito: più forte sarà la Russia, più ci potrà guadagnare il capitale internazionale (e al contempo in modo analogo potrà mutare la propria concezione di se). Allo stesso tempo ci uniremmo per i nostri scopi a un gruppo d’influenza dalle grandi risorse. Forse acquisiremmo una nuova missione. Perché non guardare a noi stessi come una delle locomotive della crescita economica mondiale, capaci di creare posti di lavoro da Città del Capo a Helsinki ? Di fatto questo già accade e accadrà in misura crescente, se potremo mantenere i nostri standard di consumo. Se parleremo o no di questo, praticamente non avrà influenza sui processi reali dell’economia, ma la differenza per l’immagine del paese consiste in questa differenza difficile da cogliere tra il criceto e il topo. Vladimir Korovkin 06.06.2008, “Novaja gazeta”, http://www.novayagazeta.ru/data/2008/color21/00.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni) |
[1] Lo zar Pietro il Grande, che regnò agli inizi del XVIII secolo, ritenuto (anche da molti russi) colui che aprì la Russia all’Europa.
[2] Ivan il Terribile (ma sarebbe meglio dire “tonante” o “minaccioso”) regnò sulla Russia nella seconda metà del XVI secolo e si attribuì per primo il titolo di zar.
[3] Andrej Michajlovič Kurbskij, principe russo che fu consigliere di Ivan il Terribile e poi suo oppositore.
[4] L’unione della chiesa ortodossa con quella cattolica siglata a Firenze nel 1445.
[5] Nome dato agli ortodossi che accettarono l’unione con la chiesa cattolica.
[6] Nell’originale l’autore specifica, come non si può fare in italiano, che furono eredi maschi e femmine. Dopo Pietro il Grande per molti anni il trono russo non passò in linea dinastica e regnarono figlie e consorti di zar.
[7] Letteralmente “urlante”.
[8] Pavel Nikolaevič Miljukov, storico e politico liberale, fuggito in Francia dopo la Rivoluzione d’Ottobre.
[9] In realtà in Lusazia (Germania orientale) sono presenti minoranze di Sorabi – o Sorbi –, popolazione slava imparentata con i Serbi.
[10] Città della Russia settentrionale retta da un regime repubblicano oligarchico fino alla conquista da parte del regno moscovita.
[11] Corsivo mio.
[12] Va detto che i russi di stripe tatara (dallo scrittore Ivan Sergeevič Turgenev al portiere di calcio Rinat Fajzrachmanovič Dasaev) sono sempre stati molto fieri delle proprie origini nonostante i Russi abbiano combattuto per secoli per liberarsi dal “giogo tataro”.
[13] Edward Bennett Taylor, antropologo inglese del XIX secolo.
[14] Storico inglese.
[15] Oswald Spengler (1880-1936), storico tedesco.
[16] Zar di Russia dal 1825 al 1855.
[17] Rus’ è il nome antico della Russia, che dall’epoca di Pietro il Grande si chiama invece Rossija.
[18] Lev Nikolaevič Gumilëv, storico russo, figlio dei poeti Nikolaj Stepanovič Gumilëv e Anna Achmatova.
[19] Nikolaj Ivanovič Lobačevskij, matematico russo, uno dei principali rappresentanti della geometria non euclidea.
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