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Dalla filologičeskij fakultet (la chiamavamo così anche quando parlavamo in italiano) all'immenso edificio dell'MGU si diceva che ci fosse un chilometro. A me pareva un'esagerazione, ma certo quel bel vialetto sembrava che non finisse mai. Certo che far fare ai prigionieri del Gulag un'università alta due terzi dell'Empire State Building senza la facoltà di Lettere...
Quel pomeriggio io, Pietro e Giusy tornavamo all'obščežitie (neanche questo veniva mai tradotto - dire "casa dello studente" non rendeva affatto l'idea) dicendo che faceva ancora troppo caldo e che doveva esserci del vero in quel che si diceva sull'effetto serra. Mosca senza neve ai primi di novembre era troppo triste, che credesse alle lacrime o no. E io maledicevo pure di essere venuto a stare lì quattro mesi senza portarmi niente di "ginnico" per poter giocare a calcio finché ancora si poteva. Qualche giorno prima avevo rinviato un pallone uscito dai campetti adiacenti con tale irruenza da spaventare il destinatario che si era girato per evitare la bordata...
A un certo punto arrivò Katja. Katja ci metteva in crisi perché studiava italiano e voleva sempre parlare con noi nella nostra lingua, mentre noi parlavamo in russo solo a lezione e volevamo parlare un po' di russo vivo. Eppure Katja era ammirevole perché si barcamenava già bene nella nostra cavolo di lingua, senza uno straccio di declinazione, con due soli generi grammaticali (manco che al mondo fosse tutto maschio o femmina) e con autentiche follie come il trapassato remoto e il futuro anteriore... Però, come capita spesso ai russi, non riusciva a trovare un po' di affluency (po-russki: beglost'). Senza... fare... pause... reggeva... al massimo... un'unità sintattica. Ma... a... volte... anche... molto... meno.
Dopo i saluti, si volle togliere subito una curiosità.
"Qual è... quella parola... che significa... "ragazza"... e comincia... per "f"?", chiese.
Io e Pietro passammo avanti, ci guardammo in faccia e trattenemmo le risate a fatica. Giusy scattò avanti e ci guardò malissimo.
"Ma dai, non può essere quella parola lì!", fece.
"Ah sì? E allora qual è?", feci io con aria sfottente.
La faccenda si faceva imbarazzante. Non ci andava di darle spiegazioni.
Dovevamo cambiare discorso. E lo facemmo. Probabilmente Katja pensò che il nostro imbarazzo derivasse dalla nostra ignoranza della nostra lingua madre.
Ma la conversazione fu stranamente impalpabile, anche se parlammo di vsjakaja vsjačina ("ogni ognità"? "Qualsiasi qualsiasaggine"? Il russo è fantastico, perché non si può tradurre - e Katja ci faceva parlare in italiano...). E quel chilometro che chilometro non era sembrava sempre più lungo. Maturava un momento epifanico.
"Ecco qual era la parola!", a Katja venne fuori una beglost' mai sentita prima. "Fanciulla! FANCIULLA!!!"
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