19 marzo 2010

Cronache dallo stato che non c'è, l'Emirato del Caucaso (III)

L'Emirato del Caucaso. Lo stato che non c'è



Scopi, tattica, vita quotidiana, personalità dei governanti notturni, fiumi di denaro e armi


La vita quotidiana

Non si può dire che i campi dei terroristi si trovino a un passo dai villaggi – tuttavia non sono neanche lontani. Mezz'ora-un'ora di marcia – la geografia del Caucaso non permette di andare più lontano. E poi: il campo non è una cosa di un giorno e i villaggi circostanti sono una fonte di provviste, medicamenti e informazioni per tutto il tempo della permanenza.

In un grande campo possono prendere posto contemporaneamente circa trenta persone.

In Rete ci sono molti filmati sull'organizzazione della vita quotidiana dei militanti. Di qualità estremamente bassa, fatti con le telecamere dei telefoni cellulari, questi filmati mostrano all'opinione pubblica mondiale come vivono i mujaheddin nei loro rifugi interrati, come si esercitano, come pregano. (Nel campo c'è sempre un “locale” per la preghiera.)

Ecco uno di questi filmati. Maggio 2009. Sette uomini siedono a una tavola riccamente imbandita da qualche parte nel fitto del bosco. La ripresa è fornita di sottotitoli con la traduzione russa – evidentemente allo scopo di una maggiore diffusione. Inoltre i sottotitoli chiariscono: la pubblicazione di questo materiale è divenuta possibile in quanto tutti i combattenti mostrati in esso sono già divenuti šachidy [1]. Cioè sono morti.

Sul tavolo c'è frutta, verdura, succhi di frutta, formaggi, salami [2], polli alla griglia. Una mensa niente affatto spartana. L'operatore di tanto in tanto si distrae, passando la telecamera dal tavolo alla tettoia vicina. Sotto la tettoia ci sono casse di pomodori e altre provviste. Ma così non è sempre; in inverno e a primavera, quando i boschi sono trasparenti e tutti gli spostamenti in essi sono visibili, i reparti talvolta vivono a lungo stentatamente di pappe di cereali e aglio orsino, che si può tirare fuori dalla terra già a febbraio. I militanti vanno anche a pesca nei fiumi di montagna. Là ci sono le trote.

In generale il terrorismo invernale è una tendenza relativamente nuova. In precedenza in inverno I militanti andavano principalmente nei villaggi.

Nello stesso filmato fatto durante la tavolata è stata registrata una pacifica discussione. La conversazione tratta del fatto che se uno dei fratelli si sposasse, l'altro gli regalerebbe una macchina per il matrimonio. Le preoccupazioni, in generale, sono mondane, di tutti i giorni. Perché darti una macchina, se domani il tuo cadavere sarà mostrato nei notiziari?

Di per se i banchetti nei boschi sono già una garanzia assoluta che presto questi ragazzi non saranno più tra i vivi. Ma questi non ragionano della morte e del premio che ad essa segue – ciò per cui molti sono entrati nella jihad. Ragionano della vita.

Dalla ripresa è chiaro: tutte le persone mostrate in essa facevano una vita aperta. Se gli odiosi leader della clandestinità non se lo possono permettere, perché le loro facce sono note a vecchi e giovani, i terroristi minori non sono obbligati a mantenere l'incognito fino a quel punto.

Dal filmato è chiara anche un'altra cosa: i canali di rifornimento di provviste dei campi sono ben messi. Qualcuno ha portato in un lontano edificio blindato nel bosco tutte queste casse di provviste! Ci sono anche altre riprese che confermano che i civili non evitano i militanti: ecco che in mezzo al bosco siede l'emiro di turno con il Kalašnikov in mano e riferisce agli ascoltatori la politica dell'Emirato. E dietro di lui chiocciano i polli, del cui allevamento difficilmente si occupano i militanti.

Anche le prediche del defunto Said Burjatskij, evidentemente, erano popolari non solo nei boschi: lo ascoltavano volentieri anche nei villaggi. Ci sono filmati fatti in un'abitazione. Said siede in poltrona. Davanti all'obbiettivo di tanto in tanto corrono dei bambini. E' chiaro che non è il quartier generale di una formazione armata, ma una casa comune, come ce ne sono migliaia nel Caucaso. Said Burjatskij poteva essere ospite di ognuna di esse – e probabilmente ci sono pochi posti dove lo avrebbero rifiutato.

Formalmente I padroni della casa dov'era Burjatskij sono “simpatizzanti”. Questo nel caso migliore, ma forse anche fiancheggiatori. Ma il Caucaso è stretto. L'etichetta di “simpatizzante” in questa ristrettezza si attacca facilmente a chiunque. A chi ha legami di parentela con gli uomini della clandestinità, a chi ha studiato con loro nella stessa classe, a chi non gli ha rifiutato ospitalità per una notte, perché rifiutarla è una vergogna.

Da dove arrivano le armi ai militanti?

Anche se si scorrono fugacemente i rapporti di polizia dai posti in cui sono state condotte operazioni speciali, diviene chiaro che l'armamentario dei reparti armati dei boschi risponde alle loro non scarse ambizioni di controllo su tutto il territorio del Caucaso. Ecco un comunicato dell'agenzia di informazioni Internet “Kavkazskij uzel” [3], preparato sulla base delle parole di un ufficiale della polizia cecena di cui non viene fatto il nome: “Ieri nei dintorni dell'abitato di Kargalinskaja nel distretto di Šelkovskaja gli agenti delle strutture per la tutela dell'ordine hanno liquidato un importante nascondiglio di militanti. In esso erano conservati un lanciafiamme RPO-A [4]Šmel'[5], un lanciagranate monouso tipo “Mucha” [6], un PTURS (protivotankovyj upravljaemyj reaktivnyj snarjad [7]), un mortaio di grosso calibro, un'arma automatica Kalašnikov, un innesco per RPG (ručnoj protivotankovyj granatomët [8]), circa 200 cartucce per armi leggere e due bombe a mano”.

Si può supporre che, per esempio, le armi automatiche Kalašnikov trovate siano state preparate su licenza in Cina e poi per vie traverse siano giunte in Russia. Tuttavia è noto che di Kalašnikov e lanciagranate da fucile oltre ai militanti sono armate anche le strutture armate russe. Il buon senso suggerisce che esista un qualche meccanismo, grazie al quale le armi scorrano dalle strutture armate nelle mani dei militanti. E questo meccanismo è ben più semplice delle strade contorte delle armi attraverso decine di frontiere.

In qualche modo mi è capitato di discutere con un importante capo di polizia messo a riposo. E ho chiesto: “Da dove arrivano ai militanti gli RPG e gli “Šmeli”?” Questi ha risposto mediocremente: “Beh, li rubano!”

Qui c'è solo un pochino di verità: un po' di ciò di cui sono armati i reparti viene preso per mezzo di attacchi agli arsenali. Quando successe quel che successe a Beslan, Vladimir Kolesnikov, allora procuratore generale, quanto alle armi di cui disponevano i terroristi dichiarò: “Tre pistole e sette armi automatiche furono rubate dai militanti nella notte tra il 21 e il 22 giugno durante un attacco all'Inguscezia”. Un anno più tardi, nel corso di un attacco a Nal'čik [9], venne pure a galla qualche arma rubata durante un attacco alla Narcotici di Nal'čik nel dicembre 2004. Fate attenzione: solo una parte delle armi usate dai militanti in queste mostruose operazioni è stata riconosciuta ufficialmente rubata dagli arsenali delle istituzioni armate. Da dove sia arrivato il resto, né Kolesnikov né i suoi colleghi lo comunicano.

Tuttavia non è difficile indovinare.

Circa tre settimane fa in una cittadella militare non lontana da Beslan è risuonata un'esplosione. Una bambina, figlia di uno degli addetti all'arsenale locale, giocava con una granata, che le è esplosa in mano. La bambina è morta e altri due ragazzi sono rimasti feriti. I genitori hanno chiarito che i bambini avevano raccolto la granata per strada e come sia arrivata là non è noto.

Tuttavia la SKP [10] oltre a questa versione ne ha condiviso con i giornalisti anche un'altra: la bambina ha portato la granata da casa.

I risultati ufficiali dell'inchiesta su questo terribile avvenimento non ci sono ancora e non è escluso che si confermi proprio la versione dei genitori: la granata giaceva per strada. E forse si troveranno perfino le persone che hanno portato via questa granata dall'arsenale. Ma perfino tale conclusione delle indagini confermerà l'eterno principio russo sull'organizzazione del lavoro: ciò che custodiamo, lo abbiamo. L'intraprendente personale di servizio militare frega senza ritegno dagli arsenali tutto ciò che è sistemato male. E perfino ciò che è sistemato bene: neanche comprare un lanciagranate è un problema per gli interessati.

In Daghestan ora è si sta sviluppando lo scandalo dei militari della brigata di Botlich [11] arrestati. Con operazioni concordate questi avrebbero portato fuori dall'arsenale l'arma automatica “Val” [12] con cui è stato ucciso il capo del ministero degli Interni della repubblica Adil'gerej Magometagirov e poi avrebbero riportato indietro questo “Val”.

Come finirà questa storia, è già chiaro dalla posizione comune degli inquirenti. Ma il modo rapido e senza compromessi in cui è stata organizzata la cattura degli uomini di Botlich e il modo fugace in cui gli inquirenti descrivono tutto il meccanismo del presunto crimine spingono a pensare che il meccanismo non sia nato ieri. Non si tratta concretamente di questa storia, ma della nostra vita caucasica nel suo complesso: a tutti è ben noto chi, come e a che scopo ruba le armi. Ma nessuno si intromette.

Una volta sono stata in Inguscezia nel corso di fatti turbolenti. E c'erano persone che là garantivano la sicurezza – la mia e quella di qualche altro giornalista. Per rafforzarci ci aggiunsero un ragazzo giovane. Questi non faceva niente, semplicemente andava dappertutto con noi con il suo Kalašnikov. Noi, mettiamo, andavamo in una casa e questi restava nell'antibagno e aspettava. Sedeva e teneva l'arma sulle ginocchia. E i ragazzi, i giornalisti ridevano: “E' il nostro militante a comando manuale”.

Poi lo incontrai ancora una volta. Si vantava di una ferita di striscio e di una pistola Makarov. Chiesi da dove venisse la pistola. Rispose: “E' della polizia. E' costata quasi mille rubli [13]. Me l'ha regalata mio fratello”.

Le armi in generale sono un regalo diffuso in alcune repubbliche caucasiche. Perfino per gli anziani. E' come un titolo di stato: non chiede da mangiare, ma in caso di necessità si può sempre vendere o scambiare.

Ed ecco che l'eminente terrorista Anzor Astemirov in una delle sue interviste critica il programma della polizia per accaparrarsi le armi dei civili svoltosi negli anni 2006-2008 e costato allo stato circa 80000 dollari. “Il popolo non ha consegnato nulla al ministero degli Interni, tranne vecchi fucili che erano stati nascosti dopo la Seconda Guerra Mondiale e che costavano 10 rubli [14]. La gente preferisce conservare le armi serie, per esempio le pistole, per la propria sicurezza. A parte questo, il ministero degli Interni paga, per esempio, 10000 rubli [15] per una pistola Makarov; noi invece la paghiamo da 35000 a 50000 rubli [16], a seconda delle sue condizioni. Inoltre, a differenza del ministero degli Interni – e questo è di importanza essenziale – noi non chiediamo mai da dove una persona ha preso quest'arma. Chiunque sia, questa non rischia che contro di lei sia avviato un procedimento penale o che addirittura la mettano in prigione. Di conseguenza noi otteniamo le armi e il ministero degli Interni ha perso dei soldi”.

Chi paga la guerra?

La guerra non è una cosa gratuita. Oltre alle armi un reparto dei boschi ha bisogno anche di radio portatili, binocoli, medicine, equipaggiamento da campo di tipo militare, borracce, sacchi a pelo e tende. C'è bisogno di cibo. Chi si da alla macchia ha bisogno di sostenere finanziariamente in qualche modo la propria famiglia e le famiglie dei morti.

Diversi importanti leader ufficiali (militari e civili) spesso dicono che la clandestinità del Caucaso ha, per così dire, una natura artificiale. Nel senso che la sua creazione sarebbe opera di forze che guidano il processo dall'estero. E anche il finanziamento dei campi nei boschi verrebbe dall'estero.

Questo in parte è vero: l'aiuto dall'estero c'è. Fondamentalmente li aiutano i nostri ex concittadini, che sono andati lontano dalle repubbliche native. Anche se il tutto non si fa senza la partecipazione di stranieri. Per esempio, nell'aprile dello scorso anno in Daghestan è stato ucciso il mercenario Ziya Peçe, cittadino turco. Negli ultimi anni l'indirizzo fondamentale della sua attività era stato il finanziamento della clandestinità: portava nel Caucaso denaro di simpatizzanti all'estero. Ed era non poco denaro per le misure nell'ordine dei centesimi delle necessità vitali di un reparto. Solo l'ultima tranche fornita dal turco ammontava a 15000 dollari. Ma comunque le dimensioni dei finanziamenti non erano affatto quelle del Mossad o del Dipartimento di Stato.

Negli appunti personali dell'eliminato Peçe c'erano alcuni conti di ragioneria e delle sue conclusioni insoddisfatte sul fatto che i militanti spendono troppo denaro “per se”. Il budget, in altre parole, non è elastico e non tiene conto delle spese di rappresentanza.

E comunque la fonte principale di finanziamento dei reparti dei boschi è interna, russa. Di questo racconta lo stesso Anzor Astemirov: “Il supporto finanziario dell'Occidente o dei paesi arabi è un mito e una menzogna totali. Noi abbiamo creato e sistematizzato una tecnologia di supporto interno e la shari'a ci da regole precise per la raccolta dello zakat (imposta) di guerra. Abbiamo preparato regole e ordini, che sono stati diffusi nei nostri territori dai naib (vice-comandanti). Nell'attuale situazione finanziaria qualsiasi forma di supporto non è più un'azione volontaria. Ora questo è un dovere individuale per ogni vero musulmano, perché siamo in guerra. Noi non prendiamo nulla oltre la percentuale stabilita, non rapiniamo le famiglie povere o chi ha sofferto a causa del regime; invece li sosteniamo finché ce lo possiamo permettere. Con chi si rifiuta di osservare la legge, di compiere il proprio dovere, usiamo vari tipi di pene, comprese quelle fisiche”.

Cioè, traducendo dal wahhabita [17] in russo: i reparti si guadagnano da vivere con del banale racket. I principali “contribuenti” dell'Emirato Caucasico sono i grandi uomini d'affari. I poveri dei villaggi difficilmente soffrono delle scorribande dei militanti. Se pure chiedono qualcosa ai contadini è solo l'ospitalità per la notte e la cena.

Conclusione

Ho raccolto la storia della clandestinità nel Caucaso per qualche mese. Ho parlato con molti “là” e qui, a Mosca.

Le persone più diverse mi hanno raccontato come vedono questa terribile entità – l'Emirato del Caucaso. Alcune di loro non sono già più tra i vivi. Ho ascoltato tutti non per democratismo, ma capendo che sappiamo così poco dell'Emirato solo perché non ne vogliamo sapere. Qualsiasi interesse per la clandestinità da noi viene paragonato alla simpatia. O peggio – al fiancheggiamento.

Ma come possiamo vincere un avversario, se non vogliamo guardarlo in faccia?

La fondamentale conclusione che ho tratto dalla mia rozza analisi: le principali armi contro la clandestinità sono la saggezza e la coerenza.

Da vent'anni ci convinciamo di cose del tutto opposte. Da una parte siamo convinti che nel Caucaso contro il potente esercito russo combatta un mucchio di ottusi bastardi che non conoscono neanche le tabelline. Dall'altra che contro la Russia nel Caucaso faccia guerra tutta la popolazione dai piccoli ai grandi.

L'una e l'altra cosa sono menzogne.

Il conflitto nel Caucaso è il destino della Russia. La sua risoluzione non è un compito militare, ma filosofico. Un secolo e mezzo fa, capendo la non univocità, la molteplicità di livelli di tutti i fatti caucasici l'imperatore Alessandro II prese la decisione di parlare con l'avversario. In confronto ai nostri attuali successi nel Caucaso la decisione dell'imperatore sembra brillante – poiché la leadership attuale, com'è noto, non conduce trattative con i terroristi.

La Russia odierna in questa guerra divide tutto in bianco e nero, proponendo le corrispondenti regole del gioco. Ma perché il gioco vada secondo le tue regole, bisogna che in qualche modo le osservi anche tu stesso, perlomeno distinguendo in modo elementare amici e nemici. E il nostro spazio di inimicizia è organizzato secondo le regole di qualche altra geometria non euclidea. In determinate condizioni fruiamo dei servizi del nemico. In altri casi eliminiamo gli amici.

In qualche modo dovremmo far chiarezza in noi stessi.

Le persone della clandestinità

Anzor Astemirov e Musa Mukožev

Il cabardo [18] Anzor Astemirov, già dichiarato ucciso molte volte, nel 2007 ha preso il posto di primo presidente (kadija) della corte shariatica dell'Emirato del Caucaso. Questi è anche emiro militare della vilajjat [19] unita dei Cabardi e dei Carachi [20] – cioè primo leader della repubblica nella gerarchia dell'emirato.

Questo è l'apogeo della carriera politica di Astemirov, per raggiungere il quale ha camminato a lungo. In questo tempo è riuscito ad acquisire non solo un'immagine di terrorista audace e imprendibile, ma anche una biografia estremamente interessante.

Anzor Astemirov ha 32 anni. Questi è di famiglia intellettuale e ama sottolineare la propria alta origine – dice che nella sua stirpe ci sono importanti principi circassi [21].

Astemirov con la sua intelligenza avrebbe potuto pienamente divenire uno splendido teorico della filosofia e della teologia. Ai suoi articoli, pubblicati in raccolte scientifiche nella precedente epoca “pacifica” si rifanno ancora gli autori di monografie.

E' ben istruito: ha studiato alla madrasa di Nal'čik [22], in seguito su presentazione dell'Amministrazione Spirituale dei Musulmani della Kabardino-Balcaria (DUM [23]) fu inviato in Arabia Saudita.

L'invio di studenti eccellenti ai centri di istruzione islamica all'estero era negli anni Novanta una pratica abbastanza diffusa, anche in Cabardia. Il clero ufficiale sosteneva la posizione secondo cui il contatto con la cultura scientifica islamica estera avrebbe dato nuove forze alla vita spirituale del Caucaso. In futuro la leadership della DUM si sarebbe pentita disperatamente della propria decisione.

Dai propri viaggi gli studenti portarono quello che più tardi si sarebbe deciso di chiamare “wahhabismo”. Molti studenti inviati in Medio Oriente una volta tornati costituirono il nocciolo della cosiddetta jamaat della Kabardino-Balcaria. Anzor Astemirov in questa jama'at era di fatto la seconda persona per importanza – il vice-emiro.

Questa era una comunità di credenti strutturata rigidamente, che agiva in qualità di alternativa alle comunità ufficiali. Inizialmente la jamaat era solo un'opposizione sistematica alle strutture della DUM. Al clero ufficiale i giovani teologi rimproveravano di dormire, trasformando l'Islam in un residuo culturale.

Il clero nei primi tempi guardò alle unioni giovanili con altezzosa indulgenza. Astemirov – in futuro grande terrorista – si occupava di attività scientifica in strutture incorporate nella DUM, andava alle conferenze.

Ma con gli anni le contraddizioni crebbero. All'inizio degli anni 2000 tra il jama'at e la DUM c'era un abisso. La polizia cominciò a perseguitare i membri delle comunità alternative. E poi successe il fatto del 13 ottobre 2005 [24].

(Qui avrei voglia di allontanarmi dallo stabilire un legame causa-effetto tra questi fatti. Anche se indubbiamente esiste. E comunque: non solo le brutalità della polizia furono causa del sanguinoso intervento a Nal'čik. C'erano per questo anche altri presupposti e tra questi proprio la radicalizzazione della stessa jama'at sulla base delle idee del cosiddetto puro Islam.)

Qui ci è indispensabile introdurre nella narrazione anche un'altra persona, senza cui la personalità di Astemirov non si può in alcun modo valutare pienamente. Questa è Musa Mukožev, emiro supremo della jama'at della Kabardino-Balcaria dal momento stesso della sua formazione.

Musa Mukožev e il suo vice Anzor Astemirov sono simili per molti aspetti. Sono entrambi istruiti, proiettati verso lo scopo. Entrambi sapevano come dovevano essere i veri musulmani. Ma in Mukožev c'era qualcosa che mancava ad Astemirov e che non era possibile imparare. Astemirov era un membro stimato e autorevole della comunità. Ma Mukožev affascinava la comunità.

Musa Mukožev faceva prediche nella moschea di Vol'nyj Aul (sobborgo di Nal'čik) e per ascoltare queste prediche giungeva gente da tutta la Cabardia. Ho conversato con chi ricorda queste lezioni e mi hanno detto: “Da lui veniva luce”. Una donna anziana – madre di un imputato per la vicenda di Nal'čik – ricordava: “Ogni mattina mi svegliavo e in me si svegliava la paura per mio figlio. Io sapevo che un giorno sarebbe arrivata la polizia e non sarebbe tornato a casa. Ma quando ho sentito parlare Musa, ho smesso di aver paura. Non ho smesso di sapere che sarebbe andata proprio così – ma la paura se n'è andata”.

Non ho mai sentito nessuno parlare con tale devozione di Astemirov.

Peraltro in lui c'era qualcosa che in altre condizioni si sarebbe potuto chiamare carrierismo. In lui c'era un terribile desiderio di essere il primo. Nelle sue numerose lettere interviene nella persona dei “leader della comunità”: “Noi riteniamo, noi non dubitiamo, noi abbiamo deciso…” E sembra che soffrisse molto che al posto di questo “noi” non potesse mettere “io”.

Non mi è noto se tra Astemirov e Mukožev ci fossero liti. Anche se non è un segreto che avessero motivi di diverbio. Uno di questi era il rapporto con i separatisti ceceni. La questione per la jama'at era in chiave filosofica: “Le azioni dei fratelli ceceni sono da considerare jihad sulla via di Allah?”

Sia Mukožev, sia Astemirov soffrivano oscillazioni in merito. Si capisce, entrambi, conducendo ancora una vita aperta, tenevano rapporti con i membri della clandestinità cecena. Ma se Astemirov oscillava più spesso dalla parte dei separatisti, Mukožev oscillava dalla parte opposta. Di fatto gli spettava togliere persone dalla comunità chiamandole all'intervento armato. E nella sua ultima intervista, quando era già in fuga, Musa dichiarò: “Qui vivono i nostri familiari e le persone a noi vicine. Noi non vogliamo che qui ci sia la guerra e nella misura delle nostre possibilità tratteniamo i musulmani dagli orientamenti radicali”.

All'incirca a quel tempo Anzor Astemirov annunciò di essere stato confermato emiro dell'organizzazione militare “Jarmuk”, che operava in Cabardia. Questi dichiarò anche che la jama'at della Repubblica di Kabardino-Balcaria finalmente e irrevocabilmente sceglieva per se un futuro all'interno del “Fronte Caucasico”.

Dopo di ciò nessuno dei leader del jama'at poteva più tornare indietro. Entrambi ebbero un rapporto immediato con l'organizzazione del sanguinoso attacco a Nal'čik, nel corso del quale furono uccisi 12 civili e 35 agenti di polizia. Entrambi furono dichiarati ricercati a livello federale.

Nelle fila dell'Emirato Caucasico, già dopo i fatti di Nal'čik, le azioni di Astemirov salirono rapidamente, mentre Musa Mukožev, al contrario, si smarrì un po'. Mi sono interessata di come sia avvenuto. Non c'era alcun motivo concreto, a tutta evidenza. Tutto si impuntava di nuovo sul carattere di entrambi i leader. Musa era un uomo di impostazione pesante, autoritaria. Anzor era pure convinto, ma più flessibile. Se prima Mukožev sopra di se vedeva solo le stelle, ora era indispensabile tener conto di Dokku Umarov e di altri forti emiri. E qualcosa là da loro non si accordò. Peraltro Astemirov si ritrovò.

Così Musa Mukožev smise di essere il primo, lasciando questo posto ad Astemirov. Quando nel maggio 2009 Mukožev fu ucciso, Interfax trasmise la sua nota biografica. In essa si diceva: “Mukožev ricopriva la carica di vice dell'“emiro militare della Repubblica di Kabardino-Balcaria” Anzor Astemirov”.

Ol'ga Bobrova



17.03.2010, “Novaja gazeta”, http://www.novayagazeta.ru/data/2010/027/18.html (traduzione e note di Matteo Mazzoni)

[1] Dall'arabo shahid, “martire”.

[2] Sic. Evidentemente di carne non suina.

[3] “Nodo del Caucaso”.

[4] Reaktivnyj Pechotnyj Ognemët (Lanciafiamme a Reazione da Fanteria), “A” indica il tipo.

[5] “Bombo”.

[6] “Mosca” (intesa come insetto).

[7] “Missile Anticarro a Reazione Teleguidato” (il corsivo, qui e altrove, è mio).

[8] “Lanciagranate Anticarro Manuale”.

[9] Capitale della repubblica autonoma di Kabardino-Balcaria.

[10] Sledstvennaja Komissija pri Prokurature (Commissione Inquirente della Procura).

[11] Villaggio del Daghestan occidentale.

[12] “Asse”.

[13] Circa 25 euro.

[14] Circa 0,25 euro.

[15] Circa 250 euro.

[16] Da 870 a 1240 euro circa.

[17] In Russia “wahhabita” è sinonimo di “estremista islamico”.

[18] Appartenente al popolo caucasico autoctono dei Cabardi.

[19] Regione.

[20] Popolo caucasico turco.

[21] Appartenenti al popolo caucasico autoctono dei Circassi.

[22] Capitale della Kabardino-Balcaria.

[23] Sigla russa dell'Amministrazione (Duchovnoe Upravlenie Musul'man).

[24] L'attacco dei militanti a Nal'čik, di cui in seguito.

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