IL CASO
Tokyo, da 40 anni nel braccio della morte
Dead man walking. Uomo morto in marcia. Da oltre quarant’anni, una vita. Quattro mura, sempre le stesse, quelle su cui far rimbalzare sguardi perduti nel vuoto. Solitudine, unica compagna di un angusto viaggio, rinchiuso nella gabbia di ricordi che sbiadiscono e pensieri che balbettano. Aspettando il giorno fatidico, quello che conduce alla fine. Funziona così, in Giappone. Aspetti, aspetti, aspetti. Magari per decenni. Un giorno ti svegliano, di buon mattino.
E ti annunciano che l’ora sta per scoccare. L’iniezione fatale, il corpo che si spegne, stavolta per sempre. Solo dopo si prenderanno la briga di avvertire i parenti. Iwao Hakamada aspetta, lo fa dal 1968, quando una sentenza lo spedì nel braccio della morte, con biglietto d’andata in manette e di ritorno in una cassa di zinco. Una sentenza che grida vendetta, come per Rubin Carter, l’Hurricane cantato da Bob Dylan e interpretato nell’omonimo film da Denzel Washington. Pugili, entrambi. E vittime di pregiudizi. Essere nero, la colpa di Hurricane, nell’America segnata da malcelato razzismo.
Aver tirato di boxe, quella di Hakamada, nel Giappone che vedeva come il fumo negli occhi chi aveva calcato i ring. Sarebbe differente, adesso, ora che atleti dai tratti orientali primeggiano nelle categorie meno prestigiose, piccoli grandi uomini che al Paese del Sol Levante regalano titoli e gloria. Allora no, nel bel mezzo degli anni ’60, quando gli ex pugili erano considerati scarti della società, muscolari senza cervello, che una volta scesi dal quadrato andavano a ingrossare le fila della malavita. Hakamada e il pugilato avevano incrociato le loro strade per un paio di anni, poco più. Il tempo per infilare 9 successi di fila (da peso gallo e piuma), prima di imboccare una parabola discendente a rotta di collo e chiudere presto una carriera breve e senza squilli (16 vittorie, 10 sconfitte e 2 pari tra il 1959 e il 1961).
Gli toccò lavorare, altro che abbracciare la vita spericolata di chi s’incammina al di là del confine con la legge. Turni faticosi in una fabbrica per la produzione di riso, notti trascorse nell’annesso dormitorio: dura esistenza, per guadagnarsi da vivere. Senza, peraltro, azzerare i pregiudizi. E così, quando ci fu da trovare un capro espiatorio, rimase intrappolati nelle fitte maglie della giustizia ingiusta. Era una torrida notte d’estate, anno 1966: lo svegliarono le urla dei colleghi, accorsero insieme nella casa del padrone, che stava andando a fuoco. Fecero il possibile per spegnere l’incendio, il peggio però era già accaduto. Tra le fiamme trovarono i corpi semi-carbonizzati e deturpati da numerose coltellate del direttore dell’azienda, di sua moglie, dei due figli. Passarono 48 giorni, poi la polizia andò a prelevarlo: nella concitazione dei soccorsi s’era procurato un taglio, il pigiama s’era macchiato di sangue.
Per gli inquirenti, l’evidenza della sua colpevolezza: era stato lui a colpire le vittime e ad appiccare il fuoco. Settimane di interrogatori, 22 giorni di fila, dal mattino alla sera, dalle 12 alle 17 ore al giorno. Manco a dirlo, senza avvocato. Torture psicologiche, ma non solo. Avevano il capro espiatorio, non restava che estorcere la confessione. Anni dopo, avrebbe scritto al figlio: «I poliziotti mi colpivano con un bastone per farmi confessare, dall’alba fino a notte inoltrata: è il loro modo di indagare. Figlio mio, tuo padre proverà di non aver ucciso nessuno: lo sa la polizia, lo sanno i giudici».
Intanto, aveva confessato. Non una, ma 45 volte. Ne estrassero una di confessione, quella che portarono in dibattimento. Al processo, lui ritrattò. Ma non cui fu verso: l’11 settembre 1968 fu condannato a morte. Tre giudici, due inflessibili, l’altro contrario. Il terzo si chiamava Morimichi Kumamoto: ingiustizia fu fatta, a sua avviso, tanto da convincerlo a smettere la toga e diventare avvocato. Fu allora che parlò di quella storia: credeva che Iwao Hakamada non fosse colpevole, disse, anzi ne era convinto. Più che un errore giudiziario, una pagina di giustizia manipolata. Hakamada chiese la revisione: richiesta respinta nel 1984. Altra richiesta, ancora respinta, nel 2004. Oltre 40 anni, nel braccio delle morte. Aspettando la fine, che qualcuno, forse per pudore (troppi dubbi), ha sempre rimandato.
Racchiuso tra quattro mura, isolato dal resto del mondo. Gli anni passano, il cervello svanisce. Iwao Hakamada è vecchio e malato. Alterna giorni di lucidità ad altri di totale buio mentale. Vive in un incubo, talvolta non se ne rende conto. È chiuso nel braccio della morte, pensa di essere a casa. Il corpo è malandato, il cervello peggio. Si rifiuta di incontrare il suo avvocato, spesso anche i familiari. Così è la vita di chi in Giappone è condannato a morte. Ce ne sono 102, in attesa della fine. E la gente non ha pietà (in un recente sondaggio l’85,6% dei giapponesi s’è detto favorevole alla pena capitale), neppure per chi è lì ma dovrebbe essere altrove. Chi ha provato a tirarlo fuori ha fatto sempre un buco nell’acqua. Un paio d’anni fa, si mosse il pugilato giapponese, al gran completo. Una serata tutta per lui, alla Kurakuen Hall di Tokyo.
Campioni, ex campioni, comprimari, organizzatori. Il giudice Kumamoto, quello della sentenza di morte, salì sul ring e spiegò alla platea di aver sempre creduto all’innocenza di Hakamada. A un certo punto, la sala si oscurò, sul video apparve la sagoma di Rubin Hurricane Carter, uno che alla giustizia ingiusta ha pagato un prezzo salato: «Free Hakamada now», urlò con voce sicura dall’altra parte del mondo. Niente da fare. Amnesty International e la comunità di Sant’Egidio questa crociata non hanno smesso di combatterla. Ogni anno, un’iniziativa. Oggi cade il 73° compleanno di Iwao Hakamada.
Quelli di Amnesty si appellano alla gente comune. Chi crede nella giustizia, imbracci un cartello con la scritta «Free Hakamada», scatti una foto e la spedisca. Ne faranno un gigantesco patchwork, da issare dinanzi all’ambasciata giapponese a Londra. Gli hanno rubato la vita, almeno gli riconsegnino la dignità.
E ti annunciano che l’ora sta per scoccare. L’iniezione fatale, il corpo che si spegne, stavolta per sempre. Solo dopo si prenderanno la briga di avvertire i parenti. Iwao Hakamada aspetta, lo fa dal 1968, quando una sentenza lo spedì nel braccio della morte, con biglietto d’andata in manette e di ritorno in una cassa di zinco. Una sentenza che grida vendetta, come per Rubin Carter, l’Hurricane cantato da Bob Dylan e interpretato nell’omonimo film da Denzel Washington. Pugili, entrambi. E vittime di pregiudizi. Essere nero, la colpa di Hurricane, nell’America segnata da malcelato razzismo.
Aver tirato di boxe, quella di Hakamada, nel Giappone che vedeva come il fumo negli occhi chi aveva calcato i ring. Sarebbe differente, adesso, ora che atleti dai tratti orientali primeggiano nelle categorie meno prestigiose, piccoli grandi uomini che al Paese del Sol Levante regalano titoli e gloria. Allora no, nel bel mezzo degli anni ’60, quando gli ex pugili erano considerati scarti della società, muscolari senza cervello, che una volta scesi dal quadrato andavano a ingrossare le fila della malavita. Hakamada e il pugilato avevano incrociato le loro strade per un paio di anni, poco più. Il tempo per infilare 9 successi di fila (da peso gallo e piuma), prima di imboccare una parabola discendente a rotta di collo e chiudere presto una carriera breve e senza squilli (16 vittorie, 10 sconfitte e 2 pari tra il 1959 e il 1961).
Gli toccò lavorare, altro che abbracciare la vita spericolata di chi s’incammina al di là del confine con la legge. Turni faticosi in una fabbrica per la produzione di riso, notti trascorse nell’annesso dormitorio: dura esistenza, per guadagnarsi da vivere. Senza, peraltro, azzerare i pregiudizi. E così, quando ci fu da trovare un capro espiatorio, rimase intrappolati nelle fitte maglie della giustizia ingiusta. Era una torrida notte d’estate, anno 1966: lo svegliarono le urla dei colleghi, accorsero insieme nella casa del padrone, che stava andando a fuoco. Fecero il possibile per spegnere l’incendio, il peggio però era già accaduto. Tra le fiamme trovarono i corpi semi-carbonizzati e deturpati da numerose coltellate del direttore dell’azienda, di sua moglie, dei due figli. Passarono 48 giorni, poi la polizia andò a prelevarlo: nella concitazione dei soccorsi s’era procurato un taglio, il pigiama s’era macchiato di sangue.
Per gli inquirenti, l’evidenza della sua colpevolezza: era stato lui a colpire le vittime e ad appiccare il fuoco. Settimane di interrogatori, 22 giorni di fila, dal mattino alla sera, dalle 12 alle 17 ore al giorno. Manco a dirlo, senza avvocato. Torture psicologiche, ma non solo. Avevano il capro espiatorio, non restava che estorcere la confessione. Anni dopo, avrebbe scritto al figlio: «I poliziotti mi colpivano con un bastone per farmi confessare, dall’alba fino a notte inoltrata: è il loro modo di indagare. Figlio mio, tuo padre proverà di non aver ucciso nessuno: lo sa la polizia, lo sanno i giudici».
Intanto, aveva confessato. Non una, ma 45 volte. Ne estrassero una di confessione, quella che portarono in dibattimento. Al processo, lui ritrattò. Ma non cui fu verso: l’11 settembre 1968 fu condannato a morte. Tre giudici, due inflessibili, l’altro contrario. Il terzo si chiamava Morimichi Kumamoto: ingiustizia fu fatta, a sua avviso, tanto da convincerlo a smettere la toga e diventare avvocato. Fu allora che parlò di quella storia: credeva che Iwao Hakamada non fosse colpevole, disse, anzi ne era convinto. Più che un errore giudiziario, una pagina di giustizia manipolata. Hakamada chiese la revisione: richiesta respinta nel 1984. Altra richiesta, ancora respinta, nel 2004. Oltre 40 anni, nel braccio delle morte. Aspettando la fine, che qualcuno, forse per pudore (troppi dubbi), ha sempre rimandato.
Racchiuso tra quattro mura, isolato dal resto del mondo. Gli anni passano, il cervello svanisce. Iwao Hakamada è vecchio e malato. Alterna giorni di lucidità ad altri di totale buio mentale. Vive in un incubo, talvolta non se ne rende conto. È chiuso nel braccio della morte, pensa di essere a casa. Il corpo è malandato, il cervello peggio. Si rifiuta di incontrare il suo avvocato, spesso anche i familiari. Così è la vita di chi in Giappone è condannato a morte. Ce ne sono 102, in attesa della fine. E la gente non ha pietà (in un recente sondaggio l’85,6% dei giapponesi s’è detto favorevole alla pena capitale), neppure per chi è lì ma dovrebbe essere altrove. Chi ha provato a tirarlo fuori ha fatto sempre un buco nell’acqua. Un paio d’anni fa, si mosse il pugilato giapponese, al gran completo. Una serata tutta per lui, alla Kurakuen Hall di Tokyo.
Campioni, ex campioni, comprimari, organizzatori. Il giudice Kumamoto, quello della sentenza di morte, salì sul ring e spiegò alla platea di aver sempre creduto all’innocenza di Hakamada. A un certo punto, la sala si oscurò, sul video apparve la sagoma di Rubin Hurricane Carter, uno che alla giustizia ingiusta ha pagato un prezzo salato: «Free Hakamada now», urlò con voce sicura dall’altra parte del mondo. Niente da fare. Amnesty International e la comunità di Sant’Egidio questa crociata non hanno smesso di combatterla. Ogni anno, un’iniziativa. Oggi cade il 73° compleanno di Iwao Hakamada.
Quelli di Amnesty si appellano alla gente comune. Chi crede nella giustizia, imbracci un cartello con la scritta «Free Hakamada», scatti una foto e la spedisca. Ne faranno un gigantesco patchwork, da issare dinanzi all’ambasciata giapponese a Londra. Gli hanno rubato la vita, almeno gli riconsegnino la dignità.
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