27 dicembre 2010

L'ultimo Robin Hood caucasico

Chi sono gli abreki [1]?

25.12.1015:56


Da più di sei secoli nella letteratura mondiale vive la leggenda del nobile brigante Robin Hood e agli studiosi finora non è ancora riuscito stabilire se Robin Hood sia esistito in realtà. “Robin un fiero brigante era, visse egli, visse egli senza conoscer paura e allegre canzoni amò” – scrisse l'ignoto autore della “Ballata di Robin Hood” della fine del XV secolo, presentando il proprio eroe. La maggior parte dei ricercatori concorda sull'idea che Robin Hood sia un simbolo letterario di eroe fiero e indipendente – il brigante, che aiutava gli orfani e i diseredati. Ma per i ragazzini caucasici idoli della lotta per la giustizia sono diventati delle persone reali, che hanno costituito la gloria leggendaria del movimento di liberazione del Caucaso.
Dopo il compimento della conquista del Caucaso nel XIX secolo, le rivolte, scoppiando una dopo l'altra, facevano venire la febbre alla società caucasica, la regione periodicamente esplodeva e bruciava da Derbent [2] all'Abcasia. Una delle forme di resistenza alla politica dello zarismo diventò il movimento partigiano montanaro – quello degli abreki. Gli abreki c'erano in ogni popolo caucasico, ma i più noti erano il ceceno Zelimchan, il lezgino [3] Kiri Buba, il georgiano Data Tutašchi, l'inguscio Achmed Chučbarov. Gli abreki erano guerrieri solitari, vendicatori, che, disperando di ottenere giustizia, fuggivano sui monti e cominciavano la propria guerra con un sistema estraneo.
Il destino dell'abrek ceceno Chasuch [4] Magomadov, ucciso da agenti del KGB nel marzo del 1976, è diventata una delle più chiare e tragiche storie del movimento di resistenza. Negli anni '30, quando l'enorme paese era coperto da un'ondata di repressione, al potente stato totalitario dichiarò guerra il ceceno Chasucha e per quarant'anni condusse una lotta impari in nome del diritto di vivere liberamente sulla terra dei suoi avi. Era nato in un piccolo paese di alta montagna del distretto di Šatoj [5] nel maggio del 1905 in una famiglia numerosa. I dieci figli dei Magomadov crebbero, come in tutti i villaggi montani, senza lussi: il vestito del maggiore passava al minore e così finché non si consumava del tutto. Chasucha voleva istruirsi e lo mandarono a studiare da un mullah, tuttavia di un'istruzione ulteriore non si poteva neanche parlare, poiché la famiglia tirava a campare a fatica. Sapendo l'arabo, il giovane cominciò a studiare da solo il Corano e le basi della religione musulmana. A diciannove anni mise su famiglia. Conosceva non male la lingua russa, perciò la dirigenza locale non di rado lo invitò come traduttore. Così Chasucha fu testimone di molti drammi umani.

Alla fine degli anni '30 cominciò l'epoca del grande terrore, l'intellighenzia e il clero furono sterminati senza pietà: furono fucilati i letterati Baduev, Dudaev, Ajsachanov, Oziev, Šadiev. Per tutte le torture dei carnefici staliniani passò Abdurachman Avtorchanov, futuro politologo di fama mondiale. Ma Magomadov non ebbe forza di cambiare il corso degli eventi. 1939 fu l'anno delle sue vittorie e infelicità personali. Per mano sua muore un compaesano, lontano parente di Magomadov. Da allora Chasucha divenne nemico di sangue per i parenti del defunto, anche se questi prima della morte aveva detto che dell'accaduto era colpevole egli stesso. Il caso fu trasmesso a una corte shariatica. Chasucha fu riconosciuto innocente. Lo perdonarono anche i parenti del morto, la vendetta di sangue fu tolta. Ma i rappresentanti del potere arrestarono Magomadov e lo portarono nella prigione di Groznyj. L'incubo della breve reclusione in prigione spinge l'arrestato alla fuga. In qualche modo Chasucha chiese a una delle guardie se si potesse fuggire da questa prigione. Questi rispose che in cento anni e passa da lì era riuscita a fuggire solo una persona – l'abrek Zelimchan. Magomadov divenne il secondo evaso dalla prigione di Groznyj. Si unì al reparto di insorti di Chasan Israilov, ex corrispondente della “Krest'janskaja gazeta” [6], condannato a 10 anni per “propaganda controrivoluzionaria”. In una delle battaglie Israilov fu ucciso. Chasucha e i suoi compagni organizzano una trappola e dodici persone restano a giacere sulla strada di montagna. Il giorno seguente nella gola viene gettata un'intera divisione, tuttavia senza risultati. Magomadov è imprendibile.

All'inizio del 1944 nei villaggi della Cecenia si acquartierarono, travestiti da soldati dell'Armata Rossa, gli uomini dello NKVD [7]. E dopo una settimana nei villaggi c'erano più soldati e cekisti [8] che abitanti. Gli abitanti temporanei che vivevano nelle case dei montanari si rivelarono reparti punitivi. 180 convogli, pieni zeppi di montanari perduti, che non capivano niente, si portarono nelle steppe del Kirghizistan e del Kazakistan. In questi giorni Magomadov fu testimone di un crimine disumano nel paese di Chajbach [9], dove nella stalla “Berija” (proprio così si chiamava la costruzione colcosiana) furono bruciati vivi 705 abitanti dei villaggi circostanti. Adesso al vendicatore non restava già più nulla, il sangue degli uccisi lo invocherà fino alla fine della sua vita. Essendo stato testimone di molti crimini compiuti dal primo stato al mondo degli operai e dei contadini, si vendicò di questo potere con tutti i mezzi possibili. Chasucha uccise a colpi d'arma da fuoco i cekisti particolarmente zelanti, uccise a colpi d'arma da fuoco anche gli sciacalli, che derubavano le proprietà abbandonate. Ma non toccò mai donne, bambini e vecchi indifesi – questo era il codice d'Onore. Se l'abrek avesse raccontato tutto ciò che gli toccò sperimentare dal giorno in cui si dette alla fuga, in questa confessione ci sarebbero state abbastanza amarezza e tristezza per cento persone che considerano tragico il proprio destino.

Bevuto l'amaro calice fino al fondo, i ceceni dopo tredici pesanti anni torneranno in patria. A Magomadov tolsero la patria per sempre. Con la famiglia poté incontrarsi solo una volta ogni qualche mese e a volte anche solo una volta l'anno. Passava la notte dove capitava: nelle grotte, nel bosco, nella steppa. E sempre in guardia: dormiva esclusivamente sulla schiena, ponendo una gamba sull'altra. Appena si addormentava, la gamba destra scivolava ed egli apriva gli occhi. La terra umida e le pietre fredde gli facevano da dimora fissa. Con il maltempo e il gelo lo riscaldava il mantello di pelo, da cui Chasucha non si separava mai. Questa era la vita di una persona fuori legge, che era perseguitata di giorno in giorno, di anno in anno. Alla sua ricerca si armavano intere spedizioni, che, impiantato un campo nel bosco, per cinque-sei mesi passavano al pettine i dintorni. Gli inviavano provocatori. Conducevano ispezioni dei luoghi con gli elicotteri. Organizzavano trappole dove poteva essere stato ospitato. Esiliarono dalla Cecenia intere famiglie sospettate di legami con lui ed egli ancor più raramente prese a comparire nei villaggi, ma fra l'altro si spostava liberamente sotto il naso dei nemici, gli scriveva messaggi, perché non lo perseguitassero, se volevano vivere. E' incredibile, ma gli riuscì stare per tre mesi in incognito nell'Ospedale Centrale di Groznyj e curarsi. Uscendo dall'ospedale, Chasucha lasciò un messaggio: “Grazie per le buone cure. Chasucha”. Trovandosi in continuo pericolo, al confine tra la vita e la morte, imparò ad essere più prudente di una bestia, assomigliando al navigato lupo della leggenda cecena, che sta ritto contro il crudele e spietato vento di uragano, che gli strappa la pelle di dosso.

L'inverno 1975-1976 fu il più pesante per Chasucha. Sembrava nevoso e freddo. Trovare cibo diventava ogni giorno più difficile. E anche le malattie si facevano sentire. La gente temeva punizioni da parte delle autorità ed evitava di incontrare Chasucha. Questi capì che i suoi giorni erano contati. Adesso aveva un solo sogno: morire da uomo ed essere sepolto com'è stabilito per un fedele musulmano. Alla fine di marzo del 1976 mandò un messaggio a suo fratello, perché venisse al cimitero e lo seppellisse. Gravemente malato, passa qualche giorno là in attesa della morte. Si scava la tomba da solo. Notato un vecchio armato, alcuni scolari lo raccontano ai genitori e questi ne danno notizia alla polizia. Saputo che lo hanno trovato, Chasucha decide di andare in un altro cimitero. Ma qui lo circondano la polizia e i compaesani. Chasucha sedeva sulla riva di un ruscello appoggiandosi a un bastone, mormorava qualcosa. Dal collo pendeva un binocolo legato a un cinturino, alla cintura ballonzolava un pugnale, da sotto il mantello-tenda gettato sulle spalle sporgeva il fucile da combattimento. Stavolta non c'era dove nascondersi e Chasucha lo capiva. Un attivista del Komsomol [10] gli gridava di arrendersi. Il vecchio non replicò. Aveva bisogno di fare in tempo a scavarsi la tomba. Cominciava a fare buio. Gli abitanti del posto, per la maggior parte semplicemente curiosi, dettero fuoco a degli pneumatici e li gettarono giù, sperando di vedere l'ultimo abrek. Nessuno si decideva ad avvicinarsi a lui, anche se tutti sapevano che era gravemente malato e che era venuto lì a morire. Di questo aveva avvertito i persecutori anche lo stesso Chasucha. Non di meno, il giovane attivista gridò di nuovo: “Sei circondato! Non ti lasceranno andare. Arrenditi, Chasucha”. In risposta seguì uno sparo. Chasucha non avvertiva due volte. Sajd-Selim, così si chiamava il ragazzo, fu ferito mortalmente. Nell'oscurità era difficile distinguere qualcuno, Chasucha sparò alla voce. Un agente di polizia che stava accanto al ragazzo ferito sparò tutto il caricatore del fucile automatico. Per tutta la notte gettarono giù pneumatici in fiamme. Per due giorni e due notti nessuno si decise a scendere giù. Il terzo giorno le autorità cercarono il fratello maggiore di Chasucha, gli dettero un fucile automatico e, convinti che quello non avrebbe sparato al fratello, lo costrinsero a scendere al cimitero. Chasucha era morto. Una salva di proiettili di fucile automatico gli aveva crivellato la testa. La morte era giunta all'istante. Questi giaceva non lontano da un piccolo bastone biforcuto piantato in terra. Chasucha già non poteva più tener saldo il fucile e per sparare senza fare cilecca usava questo bastone biforcuto.

Con un senso di dovere compiuto e di vittoria ottenuta, gli agenti del KGB portarono il cadavere di Chasucha a Groznyj. Lo fotografarono con le armi e senza e lo pesarono. Pesava trentasei chilogrammi. E aveva 71 anni. E per Mosca in piazza Lubjanskaja [11] partì un dispaccio rapido, che diceva che l'ultimo abrek del paese era stato eliminato. Le autorità si rifiutarono di restituire il suo corpo, ai parenti toccò riscattare il cadavere con denaro. Il fenomeno degli abreki era diventato una sorta di reazione nazionale di difesa dei montanari caucasici contro gli abusi delle autorità, contro l'oppressione nazionale e sociale.
Tuttavia, se sotto il potere zarista attorno ad essi si conservava ancora l'aura di nobili vendicatori, i comunisti fecero tutto il possibile per fissare sugli abreki l'immagine di “banditi” e “nemici del potere sovietico” Comunque, gli abreki innaffiarono generosamente del proprio sangue la terra del Caucaso, preferendo morire lottando contro il sistema, ma non inginocchiarsi. Forse, se il potere in Russia fosse stato più elastico e saggio, avrebbe potuto volgere questo incredibile amore dei montanari per la libertà, l'eroismo, il coraggio e l'impavidità anche a proprio vantaggio. Ma alla luce dei fatti odierni che avvengono nel Caucaso, si può constatare che l'unica lezione che la Russia ha tratto dalla propria storia consiste nel fatto che non ha ancora imparato a trarre alcuna lezione dalla storia.


Roza Mal'sagova, “Ingushetia.Org”, http://www.ingushetia.org/ru/news/line/Kto-takie-abreki/ (traduzione e note di Matteo Mazzoni)


[1] Il corsivo, qui e altrove, è mio.

[2] Città del Daghestan sulla costa del mar Caspio.

[3] Appartenente al popolo caucasico autoctono dei Lezgini.

[4] La forma corretta è Chasucha, usata in seguito.

[5] Villaggio della Cecenia meridionale.

[6] “Giornale contadino”.

[7] Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del (Commissariato del Popolo degli Affari Interni), la polizia politica staliniana.

[8] Agenti della ČK, – nello spelling russo Čè-ka – (Črezvyčajnaja Komissija po bor'be s kontrrevoljucej i sabotažem, “Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio”, la prima polizia politica sovietica), per estensione “agenti segreti”.

[9] Villaggio della Cecenia meridionale.

[10] KOMmunističeskij SOjuz MOLodëži (Unione della Gioventù Comunista), l'organizzazione giovanile comunista ufficiale.

[11] Più nota con il nome colloquiale di Lubjanka, sede del KGB.

2 commenti:

Lucina ha detto...

Grazie per l'articolo interessante.

Vorrei aggiungere, quel poco che so sulla zona, un altro aspetto attuale che ho letto vi stia sviluppando per quanto riguarda gli abrek. Si dice che i gruppi armati nel Caucaso sono nutriti da giovani che, con lo stesso amore per la liberta', la patria, pero' anche il rancore per tutte le ingiustizie subite nelle due cruenti guerre, fanno un voto di qualche anno per combattere gli "invasori" per poi tornare alla loro vita alla scadenza del voto. Per quanto riguarda una verifica di quanto sopra non ne sapro' dare.

Matteo Mazzoni ha detto...

@Lucina: in effetti gli "abrek" veri e propri erano dei reietti, che dovevano fare vita errante (spesso accadeva perché si erano macchiati di fatti di sangue e dovevano sfuggire la vendetta del clan)... In russo "abreki" venivano definiti tutti i briganti e i rivoltosi caucasici (lo stesso tipo di generalizzazione per cui tutti i guerriglieri islamici adesso sono "wahhabiti")...